Il libro “Pronto Soccorso” ha creato nell’Autore stesso una serie di dubbi. Mi assumo la responsabilità di averlo convinto della validità del contenuto e del messaggio che un testo di questo genere poteva trasmettere, dissipando i suoi timori.
Alberto temeva in primo luogo l’approccio dei lettori a un libro con questo titolo e questa copertina. In secondo luogo era titubante sulla diversità di cifra stilistica che distingue le poesie della prima parte da quelle della seconda. E, in terzo luogo, era convinto che il libro potesse avere solo carattere di raccolta personale, da conservare nel cassetto, non di testo da stampare e di cui rendere partecipi almeno gli amici e i conoscenti.
Vorrei iniziare proprio dalla copertina e dal titolo. Si affronta un demone della nostra società, la malattia, ma i sottotitoli rendono chiara l’idea che non vi è volontà di scrivere un’autobiografia del periodo di sofferenza a scopo catartico, bensì di consentire una veduta di quella realtà che io sono solita definire di ‘felicità difficile’, ma anche di donare quello che egli definisce liricamente ‘il cordino d’aquilone’, ovvero la speranza concreta di poter essere, spesso, più forti del demone. I sottotitoli parlano, infatti, di “Prima della cura per non morire di noia” e di “Dopo la cura per vivere la vita”.
Tornando al concetto del demone, che Canfora affronta e sfata, ritengo rappresenti il concetto per eccellenza sul quale occorre soffermarsi. Quando uno struzzo nasconde la testa nella sabbia probabilmente sceglie la vita più tranquilla. Nasconde a se stesso i pericoli e riesce a convincersi che non esistono pericoli. Anche troppi uomini procedono nella vita allontanando sistematicamente tutto ciò che può causare turbamento. Si mantengono ignoranti per paura di affrontare verità diverse da quelle che possono controllare. Si potrebbe dire che i loro modi di agire siano irreggimentati in modo da considerare con timore e rigetto le situazioni che potrebbero scuotere il loro equilibrio.
In tutta sincerità ritengo che vivere all’insegna dell’esorcismo, del non voler sapere e vedere oltre le proprie realtà, rappresenti ben misera cosa. Innanzitutto perché la politica dello struzzo s’identifica inevitabilmente con quella dell’egoismo e anche perché tale atteggiamento impedisce di cogliere in pieno la ‘felicità facile’, ovvero quella che io identifico con la nostra storia quotidiana. Purtroppo viviamo in quella che non esito a definire ‘società del lamento’, in quanto caratterizzata da persone mai appagate, irritabili, stressate. E, paradossalmente capita che a lamentarsi, a cadere nelle facili ipocondrie, siano spesso proprio gli individui che ne avrebbero meno motivi. Nulla più delle visite ai luoghi del dolore potrebbe rendere le persone consapevoli dei doni che possiedono. Il lamento potrebbe stemperarsi se si trovasse l’umiltà di confrontarsi con le privazioni, la dipendenza, la sofferenza.
Tra le liriche composte da Alberto ve ne sono alcune che, a mio modesto avviso, hanno valore didattico. Cito “Er cesso”, corredata dalla foto di un gabinetto, non perché sia la più riuscita stilisticamente, ma perché rappresenta il punto-chiave della ‘felicità difficile’. Scusate l’adozione di questa terminologia, ma nell’ottica di una volontà profonda di evitare pietismi e vittimismi, l’uso di un’espressione simile evita di cadere nelle trappole catartiche e sostiene la terapia del sorriso… che è la mia, ma anche quella di Alberto.
“Er cesso” esprime il desiderio, o per meglio dire, il sogno, di una persona allettata, di usufruire autonomamente del bagno. La dignità dell’uomo si erge fiera in questi versi, dai quali si può evincere come qualcosa di scontato, di ovvio, può trasformarsi nell’oggetto del desiderio, nella meta da conquistare.
Altri versi che danno pieno senso a questa lunga avventura di dipendenza, sono quelli dedicati ai ‘compagni di viaggio’. Tra le pareti bianche delle corsie i rapporti diventano intensi e diretti nel giro di poche ore. Si condividono situazioni di vulnerabilità e si abbattono le difese , si annullano i filtri. Ci si svuota in confidenze, in amore e si diventa solidali, amici. Spesso la convivenza in una stanza d’ospedale consente di scoprire aspetti della propria personalità che non si sospettava di possedere.
Simbolica a questo proposito la poesia intitolata “Giampiero”, che racconta una serata difficile nel corso della quale Alberto è il primo medico del compagno di corsia, colui che prende atto della severità dei suoi sintomi e lo salva.
Altre liriche sono dedicate alla volontà di reagire con il fisico e con la testa. Il nostro Autore scrive, legge, combatte la noia.. pensando al giornale quotidiano sulla panchina del parco, all’aroma mattutino del caffè, con la consapevolezza di non aver attribuito mai alcun valore a quei momenti… E va precisato che egli non vive l’ospedalizzazione come una bolla che lo isola dagli eventi che scuotono il mondo. Tra le altre, infatti, spiccano varie poesie dedicate al sociale, all’evento dell’11 settembre del 2001… il libro è del 2002. Alberto ricorda l’evento, lo commenta col senno dei 365 giorni trascorsi, tratta i temi d’impegno civile, con la consueta arguzia e ironia.
La prima parte del testo- prima e durante la cura-, è divisa dalla seconda da un racconto che rappresenta un escamotage che consente al lettore di saltare in una dimensione del tutto diversa. “Furto in caserma”, infatti, è un testo scritto con fine abilità stilistica, con spirito da ‘giallista’ e sembra la narrazione di una vicenda realmente accaduta al figlio dell’Autore, mentre è totalmente inventata. Il valore aggiunto di un testo è proprio nell’invectio, quando risulta così convincente da risultare specchio di vericidità.
La cifra stilistica dell’Autore cambia effettivamente tra la prima e la seconda parte del testo. Sarebbe impossibile il contrario, visto che le poesie del “Dopo la cura per vivere la vita” sono molto più recenti. A mio avviso un poeta del calibro di Alberto può affinarsi, non mutare in modo sostanziale. Ha sempre scritto seguendo i metri e le forme classiche, adottando il romanesco studiato e ha sempre avuto il dono dell’originalità. La presa di coscienza della crescita stilistica ci consente di ammirare l’umiltà di un uomo che vuole rimettersi in discussione, perfezionarsi.
La creatività sempre più ricca è il respiro di una personalità e ci racconta il suo universo in continuo divenire.
Per concludere tornerei al ‘cordino dell’aquilone’ citato da Alberto stesso. “Pronto Soccorso” vale da incitamento per tante persone che rischiano di rimanere legate a una sedia a rotelle. Il nostro Autore, grazie alle cure, alla perseveranza, all’ottimismo e alla volontà è uscito dal Pertini con le stampelle, ma in via di guarigione. Ha sconfitto il demone e, come lui, possono farlo molti altri. È bello tornà ar Pincio a primavera,/de matina co l’aria trasparente. Vero che agli artisti spesso non interessa il buon senso, ma i sensi. Che loro insegnano i riflessi della vita, non la vita per se stessa, ma è anche verissimo che occorre imparare, da uomini, la’arte di vivere a trecentosessanta gradi, perché, altrimenti, come disse Oscar Wilde: “Ci si limita a esistere e… nulla più”.
Maria Rizzi