LA SCALATA – Gianluigi Miani
Gianluigi Miani
Youcanprint Edizioni, 2014
“La scalata” è una silloge poetica di passaggio e per tale, particolarmente importante e cara all’autore: tecnicamente, fa parte di una triade poetica e di un viaggio nella poesia di circa tre anni, cominciato con “Dalla Fogna” (2011) e che si concluderà con “Schegge in superficie”, in uscita nei prossimi mesi, e sostanzialmente raccoglie le poesie delle due raccolte rimarcando le loro differenze che sono “passaggi di tappa” all’interno di un percorso evolutivo, con il contributo illustrativo del pittore maestro Mauro Salvi .Poesia nuova, vissuta, audace dove il verso con le sue rocambolesche scalate fa di tutto per assecondare gli abbrivi emotivi di un’anima cosciente del tempo che fugge e della precarietà della vicenda umana. Di una vicenda zeppa del malessere di vivere esperita in una via crucis fatta di fughe e ritorni, di paure e azzardi verso l’inconscio e l’inverosimile. Il tessuto poetico, che si sviluppa su nèssi fonoprosodici di memoria baudelairiana, declina un’intimità di dolore e di ricerca in abbrivi di parabole ascendenti. In una luce che si stacchi dalle aporie esistenziali per toccare vertici di epifanica rinascita, dacché, se un uomo si risveglia all’alba perché ha paura dei suoi stessi sogni, è un essere che vive tutte le peripezie dell’inquieto esistere, quelle dicotomiche interiorità che fanno dell’animale uomo un impasto di pascaliana memoria: piedi a terra e anima volta all’oltre. Sì, perché il sogno fa parte della vita, e costituisce una fuga da tutte le sottrazioni di cui essa è costellata. Scriveva Erich Fromm: “I sogni sono come un microscopio col quale osserviamo le vicende nascoste della nostra anima”; e qui, fuggendo dai sogni, non è detto che non si fugga da noi stessi, dalle vicende più intime del nostro essere; azzardando sguardi, magari, a mondi le cui piogge spengano le fiamme delle nostre paure. Si parte dal minimalismo, dai fatti della quotidianità, da un realismo spietato, anche, che si nutre di verbi altrettanto spietati, da far strizzare la bocca ai puritani; ma è qui il bello del poema; in quella simbiotica fusione fra male e bene, fra Caino e Abele che fa da terriccio fertile a un buon poièin. E d’altronde è la vita che è fatta di questa dualità; una vita plurale, in cui è fortemente umano cercar di uscire dal “fango” per guardare l’azzurro. E chi meglio potrà godere di questa luce di colui che viene da una frequentazione del buio della vita? Poesia duttile, generosa, di polisemica significanza, educata da un silenzio attivo, meditativo, interrotto, magari, dalla rievocazione di una società liquida, dove è facile trovarci omologati, spersonalizzati come viandanti sperduti (per scomodare Cardarelli e Bauman). Poesia dove, come afferma il poeta, “i versi sono insulti dal ritmo poetico tambureggiante che però nascondono un’ombra dolcissima e si rivelano ad un occhio attento come un concerto di visioni ed emozioni che ricordano schegge”. Nazario Pardini nazariopardini.blogspot.it