Sulla groppa di un delfino
Il cielo era plumbeo, non si scorgevano neppure le nubi tanto era uniforme; all’orizzonte cominciava ad aprirsi uno squarcio e da là prendeva sfogo il fervore del sole che, in poco tempo, si sarebbe chiuso nella sera come un nocciolo nella pesca. Il mare diffondeva profumi acuti di salmastro e lasciava sulla spiaggia conchiglie, arselle, meduse per poi ritirarsi come a pescare di nuovo. Qualche barca tentava le acque, dopo aver fatto il pieno di reti, cassette, lampare, arpioni. La pineta diffondeva i suoi messaggi, fatti di odori di ragia, di quercio, di fungo e di licheni, che, a sprazzi, concedeva ai viali. I primi pini si ritiravano come sentinelle stanche e logorate dai libecci marini.
Stavano sulla spiaggia a godersi gli ultimi raggi di settembre; per Eleonora fra poco sarebbe iniziata la scuola, per Franco il lavoro in quella fabbrica di città che non garantiva più sicurezza economica: si aspettavano le conseguenze della recessione, le difficoltà di mercato, licenziamenti a raffica. Lei non aveva voglia di riprendere la routine degli studi e della monotonia delle azioni giornaliere. Era un distacco traumatico, chissà quando si sarebbero riveduti. Avrebbero desiderato vivere insieme, rincuorarsi a vicenda dalle preoccupazioni di tutti i giorni; al solo pensiero che lui se ne sarebbe andato a vivere la sua vita e che lei avrebbe continuato la grigia esistenza da studentessa piuttosto mediocre, in continuo contrasto con la famiglia, che imputava il suo cattivo rendimento alla mancanza di volontà o alla distrazione, Eleonora cadeva nello sconforto più totale.
“Guarda che mare meraviglioso;” esclamò ad un certo momento Franco, “è talmente grande e saporito, che riesce ad assorbire tutta quanta la mia anima, quando tu mi sei vicina. Vorrei che un delfino tanto navigato ci prendesse a cavalcioni e ci portasse ad esplorare le rughe più nascoste, i segreti più reconditi, attraverso un viaggio lungo e senza confini in questo mare di giada.” Il desiderio, o per miracolo o per casualità o perché forse l’innocenza e l’amore riescono a volte a trasformare in realtà immaginazioni e sentimenti tanto fantastici, fu talmente grande che ai bordi dell’immensa distesa apparve proprio quel delfino, che sarebbe riuscito con i suoi grandi balzi e i suoi striduli richiami ad attirare l’attenzione anche del poeta più distratto, con la testa tra le nuvole. Ed il delfino si avvicinò e li guardò così intensamente da far capire che era venuto ad esaudire i loro desideri. Fu così che gli saltarono in groppa e via a gran corsa verso l’infinito mondo della libertà. Ben aggrappati, si trovarono immersi nelle acque e poi di seguito uscivano in superficie con la rapidità di un salmone. A lungo andare i loro polmoni si trasformavano e si adattavano all’ambiente marino. Navigavano immersi per tutti i fondali dell’oceano; conobbero e fecero amicizia con tutti i tipi di pesci, ai quali narravano la loro incredibile vicenda, il loro viaggio spensierato, che valeva un’intera vita; appresero il linguaggio di quelle stupende creature e si facevano narrare le loro esperienze e le loro abitudini insolite e meravigliose. Il delfino, a loro disposizione, li faceva scorrazzare rapidamente di fauna in fauna, di flora in flora; le piante ed i coralli che si dimenavano dalle rocce, le caverne attraverso le quali passavano, davano loro sensazioni ed emozioni sempre nuove. Ormai la loro era una vita completamente marina, si cibavano dell’acqua del mare e respiravano l’ossigeno dalle branchie, che si erano formate tramite una metamorfosi naturale.
Nel punto più lontano dalla terra, dove si incontrano tutti i venti, dove le voci di tutti quanti gli esseri si confondono nella melodia di una musicalità trascendente; dove le acque in superficie restano sempre calme e tranquille, affinché i loro abitanti possano riposare sereni ed osservare la grandezza e lo splendore del cielo di notte e di giorno; insomma nel paradiso del mare, decisero di restare e di abitare in un galeone che si era adagiato sui fondali. Intatto, con le sue terrazze, con i suoi grandi alberi e le sue cabine, era popolato di esseri, fatti a posta per illuminare il turchino degli abissi.
Eleonora parlava spesso con la sogliola, la quale le narrò una delle sue avventure tra le più pericolose, quando, caduta nelle reti di un pescatore, era stata salvata da un pesce sega che, con la sua arma, era riuscito ad aprire uno spiraglio fra le maglie. Franco con il tonno che aveva assistito alla tragedia di una mattanza nella camera della morte di una tonnara. E là aveva visto uccidere barbaramente centinaia di tonni da arpioni impazziti; si era finto morto ed era sopravvissuto immerso nel sangue delle vittime per un’intera nottata. Poi la fuga da una falla prodottasi in una parete. Quando raccontava la sua tragica esperienza, gli occhi gli lustravano di commozione e le pupille gli si dilatavano dal terrore.
Un bel giorno Franco si ricordò della terra, degli alberi, dei freschi, dei viali, della spiaggia dove si erano incontrati, delle persone che conosceva, delle albe, delle rugiade, delle piogge invernali, dei colori autunnali della sua pineta. E lei, mischiando le lacrime al liquido del mare, rintuzzò i ricordi, menzionando quell’angolo di mondo, dove abitualmente andavano assieme nel periodo della villeggiatura, a cogliere fiori di bosco, foglie d’alloro, ginestre e corbezzoli.
Decisero di ritornare sulla terra; chiamarono il loro delfino, che, sempre sensibile al richiamo, aveva deciso di restare con i due giovani, forse per miracolo o per casualità o forse perché a volte i sogni si realizzano, tanto sono forti il sentimento e il desiderio di vederli realizzati. Giunsero proprio sulla spiaggia dalla quale erano partiti, alla sera, quando il sole ormai si stava spegnendo nel paradiso del mare, dove avevano la loro dimora e dove avevano vissuto a lungo. Era passato del tempo, perché videro che gli amici erano cambiati d’aspetto. S’inoltrarono nel paese fra la gente che di solito frequentavano, ma nessuno si rese conto di loro, tutti li guardavano in maniera strana e sospetta. Eleonora e Franco non erano più gli stessi; il mare li aveva profondamente trasformati, i loro occhi erano del colore dell’acqua profonda, la pelle squamosa come quella dei pesci, i capelli verdi come il mare d’autunno. Si muovevano e lingueggiavano come le onde; i loro arti si stavano trasformando in pinne. Dettero un’ultima occhiata a quel mondo, quando la notte ormai si avvicinava e gli uccelli ritornavano garruli dalle svolazzate giornaliere. Si sentivano come due pesci fuor d’acqua; chiamarono il loro delfino e via contenti e felici a gran velocità verso il paradiso del mare.