La mia poetica
Posso parlare di evoluzione della mia linea, ma non certo di stravolgimento. Di sicuro, misurando la cifra poetica dei primi volumi – Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare, L’ultimo respiro dei gerani, Il fatto di esistere, Elegia per Lidia, Gli spazi ristretti del soggiorno, La cenere calda dei falò, Suoni di luci ed ombre,… – con le ultime produzioni, penso che da un verso libero, pur tendente sempre alla musicalità (uno dei principi cardini della mia poetica), mi sia sempre più orientato verso una struttura classica, in cui il mito, fortemente umanizzato ed attualizzato, ha sempre giocato un ruolo determinante nel processo ispirativo che mi riguarda. Il mito come simbologia degli intrighi delle vicissitudini umane. Mito come ipostasi della vita. Anche se la ricerca di un equilibrio classico fra figurazioni significanti e abbrivi emotivi è sempre stata nelle mie corde; magari su un tessuto più narratologico con impiego di endecasillabi spezzati a centro verso e inanellati da ripetuti enjambements a evitare il rischio di una lettura cantilenante a cui si va incontro con quel metro. I contenuti sono sempre stati più o meno gli stessi: meditazione, memoriale, panismo simbolico, input emotivo-esistenziali sui perché dell’essere e dell’esistere, coscienza della caducità del luogo e del tempo, immaginazione, azzardi iperbolici oltre il limen in cui siamo racchiusi, eros e thanatos, inquietudine e saudade, realismo lirico. Sì, il rapporto con la morte mi ha sempre coinvolto in maniera misterica e inquietante. Ma su tutto una grande simbiotica fusione con la natura, quella dei miei posti, quella che contiene tutte le mie primavere, vista come decantazione e concretizzazione dei miei stati d’animo. Sentimento, però, traslato in oggettivanti motivazioni. Penso che quest’ultimo sia il filo conduttore che determina, in qualche maniera, l’organicità delle mie opere con una evidente icastica presenza. Una cosa è sicura. Ho sempre creduto nel sentimento e in una poesia nata da forti subbugli emotivi, controllati però da argini ben solidi di ricerca verbale e stilistica. Non credo ad una poesia intoccabile, ma in un lavoro continuo di limatura della parola e dei suoi nessi. E che alla base del canto ci siano proprio le emozioni, senza ordine, libere, sbrigliate così come nascono, senza bisogno né di limiti né di restrizioni. Semmai è la ragione agli antipodi della poesia. È essa che toglie spazio all’immaginazione e che cerca di limitare e frenare le cospirazioni di un cuore e di un’anima vòlti oltre gli spazi delle ristrettezze umane.
Ci sono valanghe di premi, ed ogni giorno ne nascono di nuovi. Quello che hanno di positivo è che invogliano i poeti a scrivere, a misurarsi, a lavorare, a studiare, anche la metrica, a leggere, e a conoscere per un continuo viaggio odisseico. Bisogna però che alla base del tutto ci sia il rispetto per questi scrittori; lo chiedono con la loro partecipazione; i componenti di giurie devono mettersi nel capo di leggere seriamente i lavori, di valutarne con competenza il valore semantico-allusivo e compositivo. In questo sta il rispetto. Sotto questo punto di vista è una esperienza utile anche per gli stessi giurati, sia umana che socio-culturale. Hanno la possibilità di venire a contatto con le più svariate forme di scrittura e leggendo le molteplici espressioni, dalle più semplici alle più complesse, ne ricevono importanti contaminazioni, motivo di ulteriori riflessioni e approfondimenti stilistici e innovativi. La poesia non può restare isolata, chiusa in un mondo a parte. I premi dànno luogo ad incontri, a confronti, e credo che tutto ciò significhi crescita, soprattutto parènesi ad approfondire e studiare. Solo conoscendo le regole si è in grado di destrutturarle. Anche se la scintilla iniziale del poièin è un misterioso dilemma. La dobbiamo avere innata in noi, forse; poi, certamente, la si deve affinare con tanto lavoro.
Senza passato non c’è futuro. Non si deve escludere niente, ma bisogna dare continuità e consistenza al nostro bagaglio culturale. Dacché sarà quel bagaglio con il suo peso etimo-fonico e memonico a costituire la plurivocità del canto, il nerbo sostanziale del dire artistico. La Poesia con la “P” maiuscola non ha tempo, un canto di Saffo è tanto Bello quanto un idillio del Leopardi, o una poesia di Montale. E credo che la lirica dei poeti prepericlei sia alla base di tutto la cultura estetica occidentale. Dico di un Alceo, di un Anacreonte, di un Alcmane, di uno Stesìcoro, di un Ibico, Saffo… Senza dimenticare, naturalmente, la grande schiera di poeti, oratori, e storici della letteratura greco-latina, come Eschilo, Sofocle, Euripide, Esiodo, Catullo, Cicerone,Virgilio, Tibullo, Orazio. Apprezzarne le odi, le elegie, i poemi, le orazioni, i drammi o altro; leggerli e rileggerli, meditare e riflettere sulla forma e i contenuti, significa vedervi quella modernità che, poi, si ripete nel tempo: si tratta sempre del rapporto dell’uomo con la morte, con l’amore, con la vita. Del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo che lo circonda. Cambiano i mulini ma i venti sono sempre gli stessi. Dum loquimur fugerit invida aetas: l’uomo ha sempre sofferto della sua posizione scomoda di fronte all’infinito e proprio nel tentativo di elevarsi alle vette che più si avvicinano all’inarrivabile sta il nocciolo della vera poesia. Si sente se in un canto c’è la misura e la cognizione della parola; si percepisce da subito se questa assolve alla funzione di abbracciare le motivazioni dell’anima; quel bagaglio creativo che ti prende per mano fino ad affiancare il tuo sentire. La missione della parola è difficile e cosa dura. Ci possono essere grandi emozioni, ma se il dizionario è scalzo, se lo studio deficitario, si il n’y a pas de connaissance, per dirla alla francese, viene meno quello che è il nerbo del “poema”: quell’equilibrio desanctisiano fra dire e sentire, indispensabile paradigma di ogni attività estetica.