Da: I canti dell’assenza

Il volo di Icaro

Attratto dai richiami del meriggio
volò alto,
alto volò toccando cime immense,
azzardi che gli umani
cercano con l’anima e la mente;
ma ci si può bruciare
se il volo è troppo arduo,
si annullano in abissi senza fine
le nostre identità;
sperderci oltre la siepe,
o in cieli fra le stelle
è un naufragio per la nostra essenza.
E tu Icaro,
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.
Cadevi impaurito,
risucchiato:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi.
Padre, io sono qui,
corrimi incontro, arresta il mio naufragio,
tu puoi, con il tuo amore
e il tuo superbo ingegno”.
“Icaro, Icaro dove sei?
dove giace mio figlio eterni dèi?
Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno
ove cercare; carne della mia,
figlio imprudente, dove il volo tuo
lontano dai miei occhi. Cosa fare?
che cosa potrà fare questo padre?”
Ma d’Icaro la bocca
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
E quando il genitore
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino,
bocci di libertà.
29/12/2013 h. 10,30

 

Elegia per Lidia

Ritornerai tra gli alberi e sui campi
quando l’autunno
lacrime d’ambra
gocciola a terra,
fiore di stagione.
Brillava di passione
l’occhio glauco
ed oltre i davanzali le tue mani
coglievano gli steli delle stelle.
Quando il profumo volerà per terra
(che sepolta ti tenne
per mill’anni)
ritorneranno i fiori inebrianti
di giovani corolle ricamati.
Tingeranno caverne, forre e prati,
vinceranno l’odore della morte.
Lontano sarà il giorno dell’addio
ed il viola dei tappeti al muro
che tennero la bara del tuo rosa
trapunterà di vita la campagna.
L’assenzio spargeranno nelle stanze
che videro i tuoi crini
sciolti a caso
fiori rinati
che più sul nostro suolo noi vedemmo.
Si apriranno gli avelli
e fauni belli amanti dell’amore
suoneranno negli incavi nascosti
flauti imprestati
dagli angeli dei cieli.
Non ci saranno veli
a coprire l’innocenza.
Squilleranno le trombe i Serafini
ed ai confini dei mari
compagnia ci faranno le bellezze
che le brezze mortali di nascosto
rapirono le notti
negli abissi.
Fissi negli occhi i giorni leggeremo
di quando si correva
tra i pineti
stanchi giammai di abbracci e di carezze.
Sui colli danzeremo,
sopra le acque
al tinnire frequente
che mai tacque
l’aria imbevuta
dei nostri desideri.
E attorno ai cimiteri anime bianche
sugli avelli riempiti di colori
al canto degli uccelli variopinti
danzeranno beate e le fiammelle,
linguiformi falò, apriranno i cieli.
15/09/1995 h. 17

 

Ottobre

Era d’estate quando della vita
riflessero i barbagli. Allora vissi
la fantasia che esplose lucentezza.
Poi giunto è ottobre a mietere le foglie
di una stagione che ha reciso il sole.
La vigna saccheggiata lascia i resti
dell’ultimo raccolto. Muta e scarna
nei suoi colori morti mi dà il senso
di un suo perpetuo addio
(l’autunno mio trabocca di ricordi
che evadono invecchiati all’imbrunire).
Niente di più vicino, ora che freme
sulla distesa vana del mio piano
il tramonto del gelso, a me risulta
che il palpito ottobrino. Scorre languida
dei riflessi marciti sotto il platano
l’acqua che è sonnolenta. Va a scurire
all’ombra della volta abbandonata
del suo vecchio mulino. Il frutto cade
del giorno ormai maturo ed è la notte.
7/11/1999 h. 10

 

Si bevve Chianti in compagnia di amici

Si bevve Chianti in compagnia di amici
a un casolare in mezzo alle colline
di quella terra toscana. Ho sempre in mente
la terrazza sugli schizzi del pianoro
e all’orizzonte
il profilo delle chiome dei vigneti.
Il cielo rovesciato sui colli
dava l’idea
di copulare coi declivi a tratti cremisi
delle argille senesi. Addirittura
in quella bella giornata di novembre
evadeva la sagoma del lago Trasimeno
dalle groppe trapunte di ginestre.
Sortivano i bicchieri lampi rubino
nell’aria porporina del tramonto
e gli afrori del vino parole d’allegria,
espressioni provette da cantinieri:
- asciutto… pulito… vellutato…
corposo…; ti abbraccia… ti asciuga… ti avvolge;
è morbido come le labbra di una fanciulla,
secco come una roccia sotto il sole,
è gentile come i colli di novembre,
è caldo e rotondo come le braccia
di un amore che ti avvince quando matura -.
Giungeva l’aria tiepida d’autunno
a smuoverle le chiome che cangiavano
ai raggi della sera. Pure lei
levava il suo bicchiere. Traboccava
immagini di corse tra le vigne
saporose d’amore. E sguardi e abbracci
a rinnovare fughe giovanili.
Continuavano le voci della festa:
- canaiolo… trebbiano… sangiovese…
malvasia… – ma il mio cuore
si perdeva nel tessere una storia
tra pampini spioventi di memorie.
4/01/2001 h. 24

 

L’assenza

Mi struggerà il pensiero graffiante
dell’assenza di te; mi mancherà
il ticchettio ritmato di strumenti
pizzicati dal cuore
tuo di regina. E mi mancheranno
gli abbrivi che mi crepavano l’animo.
E il gioco della penna fra i pensieri
a tatuare i silenzi.
E quello degli sguardi tra le brume
a indagare i misteri
delle cose nascoste. E gli azzardi
ad annegare dentro
il tedio del presente.
E tu, mia Natura!
Come potrò senza te, senza parola.
Sarò muto? senz’anima? senza!
Tu!,
che coi tuoi segni ha espanso la mia voce
oltre i confini neri. Me ne andrò
con le mie assenze. In compagnia del vuoto.
Senza l’amore. Sarà con me in eterno
l’assenza della vita?
02/03/2013 h. 10

 

Il peso delle pietre

E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Di gerle di sere
d’incontri d’amore
corrose da acide piogge di tempo.
Di sguardi di lava volati nel cielo
e tornati a pesare.
E di forza rocciosa
sgretolata da ore, da giorni
in pese parole
restate nell’animo
e poi andate a sostare.
Lo porterò con me oltre quel fiume
quel sacco di pietre aggrappato alle spalle.
Lo renderò leggero,
lo renderò una piuma,
per fargli guadare quel fiume,
per farlo volare.
L’abbraccerò con tutto il suo sapore
di terra coltrata, di verde di mare,
di luce di sole, di perse parole
per non farlo morire.
13/01/2013 h. 23

 

Il ritorno di Ulisse

Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi
dell’isola, il ginepro, la lavanda,
e tu che ho ritrovato. Ho sempre in mente
il volo urlato della procellaria.
Mi strappava la carne. Le sirene
misteriose e adescanti e io che immobile
all’albero maestro volli fendere
i nascondigli fitti del sapere,
i più vogliosi. È questa la mia isola.
Qui alla sera torna a dilatarsi
l’idea dei meriggi e il lungo andare.
E ancora estendo sguardi in lontananze
sperdute. Mi lasciarono nell’anima
crepata di salsedine le note
che tornano insolute. È sempre aperta
la sfida tra l’eterno e me che cerco
con gli occhi indolenziti quella luce
che mi soverchia. Ma stasera il mare
riporta chiare voci di Calipso
e di Circe. E il canto di una vergine
intenta al suo corredo.
Sento ancora la sua candida pelle
su me adusto di sale. Ritornare
era il mio sogno. Eppure condannati
siamo sempre dai gorghi della vita
che le spoglie depongono. Nell’anima
germinano e si fanno giganti al
calare. Ognuno tiene di Nausicaa
chiusa con sé nel fondo una sembianza
mai defilata. Ed ora salta fuori
e porta dietro ogni contorno d’anni
e di stagioni che non solo amore
significa, ma voglie e nostalgie
che trovano le vie le più nascoste
e avanti a noi si levano. La ciurma
è lì che attende. Ancora salperemo
oltre colonne, questa volta, mitiche
d’impedimento ai sogni. L’ora è giunta.
Se il mio destino vuole che ritorni
ai familiari usi ed ai barlumi
dell’isola agognata, porterò
con me più luminoso il cielo. Se
perire vorrà ch’io debba in mare
straboccante d’immenso sopra i limiti
del mio essere umano, perirà
assieme a me l’eterna primavera
di chi non sentì mai sopita in anima
la voglia del viaggio. Poi tornare nuovi.
O superbi spegnerci per via (da Poemetti onirici (1999 – 2014).

 

Non chiedermi perché

Non chiedermi perché sono venuto

a trovarti di nuovo. Sarà forse

perché qualcosa provo

ancora dentro me.

Sai!, non è molto che pensavo

all’ultimo saluto. Ti ricordi?

Era sul mare, il cielo cinerino

di un settembre un po’ stanco accompagnava

un melanconico addio. Eppure

io non credevo che un lungo patrimonio

potesse rivelarsi così fragile
c
ome la bruma pallida d’autunno.

Il cielo si rompeva ad occidente

e il sole grosso e fervido, alla sera

di quel giorno impossibile,
tingeva
il tuo volto diverso. Mi ero sperso.

Non ritrovavo più la strada amica,

la strada di una vita. Sono qui.

Non chiedermi perché. Sono venuto!

Ho ancora dentro l’anima

il sole di una sera,

il mare quasi calmo, un volto stanco,

e una bàttima lenta a misurare

un tempo troppo pigro per chi soffre.

Sarà forse l’amore. Chi lo sa.

Eppure c’è qualcosa che ha guidato

quest’animo rigonfio di ricordi

tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi

di più. Accetta un mio saluto. E vado.

Davanti a me c’è un guado,
un guado che riporta

quest’uomo ormai attempato

all’altra sponda.
24/12/2011 h. 23

 

Contro le lune

Ho sempre fissa, padre, la tua immagine;

i nostri sogni, il cielo: prevedere

dure gelate a divorare pane,

piogge future ad annullare semi;

e brezze, e folate affilate

a recidere illusioni mai appagate.

Eppure si aspettava primavera

immaginando anche il suo profumo

nel suono nemico dell’urlo invernale.

È sempre fissa, sì!, la tua visione:

tronco scheggiato da lame

forgiate dal tempo;

fronda sfrascata da inverni ribelli;

idea appesantita

da troppe lune piene. Sì!, ti rivedo

ancora qui con me, padre immolato,

a regalarmi odori d’erbe offerte

alle frullane lucide di sole.
Sai, padre!

Qui non ci sono più terre feraci

disposte a dare vita

a mèssi generose;

fronde feconde

ad ospitare nidi da allevare.

Sulla tue terre crescono le case

abbracciate fra loro

come pietre di cava sopra storie

destinate a finire. Chiedo solo

- al cielo, a qualcuno, non so a chi -

che mi mantenga in seno la tua voce,

che mi mantenga in cuore il tuo sorriso,

il tuo sagrato profumato d’erba,

e la tua voglia, maledetta voglia,

di seminare sogni anche nei giorni

più neri della notte.

                                      Contro le lune.
13/05/2013

 

Francesca
Francesca mi parlava sulla rena

infuocata dal sole dell’estate.

Mi parlava del mare, della vita,

delle colline verdi che accendevano

i loro abbrivi in cuore al blu del cielo.

Mi diceva Francesca dei suoi sogni,

della sua casa candida assediata

da boschi e girasoli. La campagna

l’aveva dentro il cuore. E la vedeva

anche in quel mare inquieto e sconfinato

- ci si sperdeva libera -.

“È verde il mare come la mia avena”,

mi diceva Francesca. E delle assenze

mi parlava: di quella di sua madre.

Del dolore, del pianto, ma dagli occhi,

schegge di rara giada, le schizzavano

le parole non dette. Poi un bel giorno

mi raccontò di un sogno – le tremavano

le labbra e ed i pensieri -:
“Fui rapita
e trasformata in una nube bianca.

Fui trasferita in cielo in compagnia

del brillio delle stelle e dell’azzurro.

Sì!, proprio là restai tutta la vita;

fra l’assenza dei mali e dei dolori;

spersa nell’aria pura dell’eccelso”.
Un giorno il sole a picco dell’agosto

forava l’ombrellone. Ed io attendevo.

Mi mancavano già

i sogni, le parole,

il suo tremore,

le mosse sensuali delle labbra,

quei gesti di fanciulla un po’ innocente,

disposta a rovesciare sulla rena

- calda d’estate – l’anima serena

e il suo futuro. Mi mancava Francesca.

Mai più la vidi. Mi dissero di lei…
Realizzò il suo sogno. Volò in cielo.

Un’altra stella in più in cuore all’azzurro.

Od una nube bianca che volteggia

libera, Francesca, verdi gli occhi,
c
olor di cioccolata la sua pelle.
10/03/2013