Sulla poetica di Sandro Angelucci
Si aggiungono voci, di Sandro Angelucci
(Roma, Enoteca letteraria – 21 marzo 2015)
Seguo Sandro Angelucci fin dalle sue prime prove poetiche (Non siamo nati ancora; Il cerchio che circonda l’infinito; Verticalità) e sono testimone del suo cammino artistico di pari passo con un percorso interiore sorprendente, teso a scavare negli abissi della Natura e delle sue Leggi immutabili. La Terra, è vero, si trasforma, diviene, ma paradossalmente resta quella che è. Le sue Leggi sono “immutabili” perché sfuggono al dominio del tempo pur vivendo nella temporalità. Per questo lei resta sempre e comunque edenica, ed il poeta che ad essa si affida si trova sempre e comunque nello stupore del primo vagito, nella vertigine del primo giorno che la terra fu.
Quella di Angelucci è un’evoluzione letteraria e spirituale che guarda all’interno, che scende nelle profondità di una Madre, la Terra, di cui non avremo mai piena conoscenza, perché il suo vero volto ci sfugge, ma al cui cordone ombelicale dovremmo restare sempre e comunque legati per non smarrire le nostre ragioni di vita e non tradire il ruolo di custodi dell’Eden che la creazione ci ha dato. Consegnarsi alla terra, dunque, non per passatismo nostalgico, ma per affidarsi a quelle radici che sempre si rinnovano e che, uniche, sono garanti di vitalità.
Un percorso che alcuni definirebbero “iniziatico”, ma che io trovo più corretto definire “interiore”, o forse “autoanalitico”, teso com’è a far girare i propri meccanismi psichici, umani, secondo ingranaggi naturali e universali. Un processo di pensiero che tenta di collegarsi al progetto stesso della vita che il mistero ci ha dato (non mi sento di nominarlo altrimenti). Un processo, pertanto, che non corre nella direzione del complesso, o della complessità, ma nella direzione del semplice, nella direzione dell’Archè: di quei Principi che vengono dall’Oltre e che sono stampati nelle cose, da non confondere con i Pregiudizi costruiti nel laboratorio storico-culturale.
In questo nuovo testo poetico, Si aggiungono voci, Angelucci raggiunge una levità ed una grazia sorprendenti, con parole semplicissime, antiretoriche, legate allo statuto elementare e arcano delle cose. Egli riesce a nominare il mistero senza violarlo. Non ci sono paroloni difficili, e ciò giova, anziché nuocere, alla profondità di un ductus, di un eloquio poetico che punta all’essenziale. Semplicità, dunque, come conquista e non come gratuito dono. Nulla a che vedere con la spontaneità. Semplicità è risveglio di valori innati, caduti in oblio. Spontaneismo è dare la stura ad ogni sciocchezza, ad ogni banalità possa venire sulla penna o sulla bocca per puro caso.
La Natura, come abbiamo detto, è la vera dea della poesia di Angelucci. Non la natura esteriore, quegli stupendi paesaggi campestri e montani di cui pure è ricchissima la terra dove egli ha la fortuna di abitare (il reatino). Non la Natura bucolico-georgica, virgiliana. Non le pastorellerie rasserenanti dell’Arcadia, ma l’interiorità inquietante della Terra Madre, le cui leggi d’amore implacabile l’uomo aggredisce, o tenta di aggirare, non valutando che tutto poi, come boomerang, si rivolge contro di lui. Così queste poesie sono appelli accorati, a volte anche velenose frecciate, lanciate nei confronti del figlio degenere, che è fuori di testa e che tradisce il suo mandato.
“Abbrutiti. Schizofrenici. Impazienti. / Ma l’uccello non finisce di cantare, / il vento / prende a respirare con le foglie / e le montagne / (immobili, sicure) / aspettano l’arrivo della luce. // Era già alto il Sole / e intorno / ancora s’ascoltava la preghiera. / Noi, / soltanto noi / (distratti, inebetiti) / a spargere catrame, a bestemmiare”. Questo, purtroppo, è diventato Adamo. E tuttavia quest’uomo può fare autoanalisi, può porsi in discussione, come accade appunto nella poesia di Angelucci, scoprendo di poter tornare nelle verità del creato, nel rispetto di tutto ciò che vive e respira intorno a lui. Un’orchestra d’amore, un concerto dolcissimo, conquistato al prezzo di dure battaglie.
Nessun idillio, pertanto. Qui non c’è l’edulcorata visione di una Terra tutta carezze e baci, tutta fiorellini ed augelli svolazzanti nei prati. Ci sono schiaffi e carezze, perché la violenza della natura non va sottaciuta. Né va leopardianamente rifiutata. La sua crudezza è equilibrio e non sopruso. La sua asprezza va accettata senza battere ciglio, da padroni di noi stessi e non da esseri remissivi o rassegnati. Va accettata da esseri consapevoli degli errori commessi e spinti dalla volontà di riparare. Anche il Male contribuisce, come il Bene, alla costruzione coscienziale. Ed è questo l’Eden, dove, ricordiamolo, non si possiede ancora la scienza del Bene e del Male.
Il Bene ed il Male sono fratelli inseparabili. Guai a porre l’uno contro l’altro Caino e Abele. Guai a separare ciò che è unito e che unito deve restare. Come Adamo ed Eva, come la Terra e il Cielo. Icaro, allora, si deve ravvedere: “Meglio ammettere, / una volta per tutte, / che ho le ali, che sono un demone: / solo così posso sentirmi un angelo”. Tanto più in alto egli può volare, quanto più si sente radicato al suolo e non abbandona la forza gravitazionale. Questo perché, scrive Angelucci, “sulle spalle… / deve gravare / il peso di una Croce”. Senza quel dolore non si aprono le porte del cielo, né si accendono gli azzurri paradisi.
Ed ecco la chiosa: “Proprio quello l’errore: la superbia. / Mentre pioveva amore / non accorgerti / che stavi camminando sulla stella / che più desideravi, / e tu, in volo, a cercarla chissà dove, / in quali mondi, / in quali paradisi inesistenti”. Vero volo è quello delle rondini nel loro spiazzante e scomodo zigzagare: “traiettorie / senza nessuna logica apparente / … / E non la linea retta / che si perde / nella sua stessa, vuota inesistenza. / … / picchiare, risalire e poi planare. / E poi picchiare ancora, / ancora risalire, fino a sera / finché c’è fede / e amore e forza nelle ali”. E’ il leitmotiv dell’intera raccolta: la Natura come manifesto di leggi cosmiche, come sorgente di vita e d’amore, di lezioni morali.
La natura, per Sandro, è fonte inesauribile di insegnamenti etici. Un’immersione nella saggezza innata, che è vera saggezza ed è molto più di una filosofia costruita dall’intelletto umano. La natura è un libro aperto e a nostra portata di mano; un libro scritto in un linguaggio semplicissimo, seppure dimenticato. E non è vero che le sue leggi ci vogliano schiavi. La natura, ci dicono queste poesie, insegna ad essere liberi. Ed ecco rovesciato l’assunto generato dalla nostra stoltezza, secondo cui libertà sarebbe affrancarsi dalle leggi del creato. Essere liberi significa essere se stessi. Si può forse dubitare che un animale lo sia? o che lo sia un vegetale? o un minerale?
Costoro sono se stessi perché sono selvaggi. Questa è la caratteristica della libertà: essere selvaggi, ovvero padroni di se stessi. Noi non possiamo esserlo, perché la cultura, l’intelletto, il libero arbitrio, ci rendono decadenti. La possibilità che noi abbiamo di andare contro natura, o contro noi stessi, non è il segno della libertà, come amiamo illuderci e pensare, ma quello del nostro tendere a renderci schiavi. Per questi motivi, la poesia di Angelucci, nella sua pacatezza, nella sua colloquialità, è un atto profondamente rivoluzionario. Essa ci dice che vera libertà è non approfittare della libertà, e con ciò riconsegna il nostro deviato intelletto alle leggi morali del creato.
Spero di avere altre occasioni per approfondire ed ampliare il discorso, perché questa visione del mondo mi è assai familiare, ma ci tengo a concludere sottolineando che sotto accusa, in questa poesia, è l’impalcatura culturale dell’uomo, boriosamente tesa a costruire un universo alternativo a quello che il mistero ci ha dato. Cos’altro può fare il poeta, allora, di fronte al merlo sorpreso a mangiar bacche nel giardino? Non altro che sentirsi colpevole e vergognarsi del proprio essere umano: “Se fossero di piombo le tue bacche, / se al posto del becco / avessi una mitraglia / t’inviterei a spararmi addosso”.
E non si creda che, nell’esaltare la maestà del creato, il poeta intenda annichilire l’intelletto umano. No, l’uomo si deve confrontare con il mistero del cosmo e del creato: “Ciò che conta è il confronto”, scrive Angelucci. E poi: “Dialogare / ecco che vorrei, / dialogare come fanno i fiori: / un sussurro alla terra / ed uno al Sole, / un bacio alle radici / e un altro al cielo”. Non un ascolto passivo, pertanto, ma un dialogo, una conversazione, un rapporto amichevole, confidenziale. L’ego ha indubbiamente un ruolo da svolgere. Non deve essere ingombrante, ma neppure deve sparire del tutto, pena l’incolumità psichica dell’essere umano.
Quando si parla di ascolto, di poesia come ascolto dell’Essere, l’allusione più o meno velata è ad una sorta di trance, ad una sorta di scrittura automatica incontrollata, dove non è la Musa ad apparire, ma i miraggi del deserto. La Musa, che è poi il mistero dell’Essere, appare e concede le sue grazie solo a chi combatte per il proprio equilibrio coscienziale. “Forse ho capito”, dice allora Angelucci: “quando mi nascondo, / forse soltanto allora / io esco finalmente allo scoperto”. Quando mi nascondo, non quando mi annullo. Perché non è la ragione che si deve annullare, bensì la presunzione da cui essa risulta purtroppo ammorbata.
Franco Campegiani