La cameriera capitata lì per sbaglio e lo scrittore addormentato

 

 

Le avevano detto che prima o poi sarebbe potuto accadere, ma non era successo mai. Aveva una domanda da fargli, nel caso un giorno, lo avesse davvero incontrato …

ma non era successo mai.

Probabilmente non era pronta per la risposta: di solito è la vita che decide i tempi.

E una semplice cameriera capitata lì per sbaglio, cosa ne poteva sapere di arte,

di poesia, di scrittura di … ispirazione.

“..Ah e se ti dovesse capitare di vedere un uomo seduto per terra con accanto un posacenere, una bottiglia di vino e qualche foglio di carta, non ti prender pena ne’ paura è solo mio nipote, che quando ha voglia di scrivere se ne va giù nella mia cantina. Cerca l’ispirazione dice lui, ma il più delle volte dorme! Un tipo strano,

lo dice anche mia sorella. Comunque ti ho avvertita quindi nel caso dovesse

capitare tu prendi i soliti stracci e torna su!”

Una volta la settimana, la cameriera capitata lì per sbaglio, scendeva piano le

scale che portavano alla cantina, in un susseguirsi di gesti e movimenti che si

preoccupava di eseguire con attenta meticolosità.

Passo dopo passo, fantasticava sul nome, il viso e gli abiti di quello scrittore addormentato poi, il rito: l’ultimo gradino, gli occhi chiusi, una mano sul legno

umido della porta, l’altra gira la chiave nella serratura, un respiro, gli occhi si schiudono e la porta si apre … lui non c’è.

Lui non c’era mai.

La puntuale assenza dello scrittore addormentato aveva nutrito in lei, giorno

dopo giorno l’insoddisfatta curiosità che si era fatta sottile impazienza e alla fine, insaziabile voglia di sapere, di vedere, di dare un volto a quell’ombra nera che

ormai le succhiava fantasie e pensieri.

Alla fine si arrese a quel bisogno, parte forse di un desiderio più profondo e si

mise come “in attesa”. Così erano passati i mesi, in attesa. I gradini li scendeva

piano e la porta l’apriva veloce.

Poi un piovoso pomeriggio di Aprile scese veloce i gradini, aprì piano la porta e

se lo vide lì, seduto per terra con una gamba stesa e l’altra piegata.

I pantaloni poco più chiari del pavimento color cenere, le scarpe marroni slacciate,

di una si vedeva la suola, dell’altra la punta. Aveva la schiena poggiata su un baule, con l’indice e il medio della mano destra teneva una penna, forse blu, appena sopra qualche foglio a quadretti sparsi subito sotto il suo addome. Mentre la mano sinistra, rilassata incontrava il pavimento, non molto distante da una bottiglia di vino.

La testa girata leggermente cadeva sulla spalla sinistra.

Che fine avrà fatto il posacenere pensava la cameriera capitata lì per sbaglio,

quando lo scrittore addormentato si svegliò. Ne fu impaurita e istintivamente fece

un passo indietro, poi si bloccò … rigida. Lui invece sorrise, come se fosse la cosa più normale del mondo ritrovarsi al risveglio da chissà quale sogno in piedi, tesa e dritta davanti a se’, una ragazza.

Una ragazza non molto alta, con un maglioncino nero che le scopriva le spalle,

un paio di jeans non troppo scuri che lasciavano poco spazio alle scarpe, verdi o

forse nere. I capelli color cioccolato morbidi e lunghi fino al seno, più corti ai lati degli occhi, piccoli e scuri. Lentiggini ai lati del naso, piccolo anche quello, fino

agli zigomi. Le labbra sottili e quasi a forma di cuore. Una ragazza senza nome

che al sorridere di lui fece un altro passo indietro e con una voce da bambina finalmente, fece la domanda la cui risposta aveva, per qualche tempo, giocato a nascondino tra le varie stanze della vita: ” Perché in cantina? “

Divenne serio lo scrittore addormentato, si guardò intorno lentamente come se lo stesse facendo per la prima volta, respirò la cantina se la portò nel profondo, chiuse gli occhi … silenzio.

Da una piccola finestra in alto a sinistra, più lunga che larga, si sentiva arrivare il rumore della pioggia che batteva sul vetro, in un tempo che non era sempre lo stesso. La cameriera capitata lì per sbaglio si accorse della pioggia. Guardò verso la piccola finestra e subito il suo sguardo venne come rapito da una vecchia e impolverata

sedia a dondolo, che se ne stava lì, in parte accarezzata dalla luce leggera del

mondo che entrava dal vetro suonato dalla pioggia e in parte, catturata dal buio

della cantina. “Perché in cantina.” La voce dello scrittore addormentato la fece voltare di scatto, quasi se lo era dimenticato e, quell’uomo con la bottiglia di vino

in mano, le labbra quasi umide, gli occhi ancora chiusi, resosi conto di aver riacquistato l’attenzione di lei continuò ” Perché in cantina … perché qui il tempo

si è fermato e con lui la vita di tutti questi oggetti che si porta in grembo.

Vengo qui per guardarli e per toccarli. Per svestirli della polvere che li nasconde,

che cerca di renderli tutti uguali, per osservare la loro storia dimenticata, per

nutrirmi della loro non-morte, della loro attesa.” La sua voce era così dannatamente profonda e il suo tono così terribilmente lento. Catturava.

“C’è un pianoforte subito dopo il divano alla tua destra, non so che problema

abbia: non l’ho mai suonato realmente ma, ha l’aria di uno che è stato messo qui

in attesa e chissà da quanto tempo … abbastanza da fargli dimenticare chi, cosa sia stato … penso io. La polvere maschera il suo vero colore: ci si perde facilmente

nella polvere. Come qualsiasi cosa in questa cantina, come chiunque si metta o

venga messo in cantina è ” in attesa “… di cosa … mi chiedo io. Forse di ricordare, di morire … o di ri- nascere. Io non posso aggiustarlo nel corpo, ma posso fare qualcosa per l’anima: vedi, il pianoforte, non si sveglia finché io non lo guardo.

Il pianoforte non sa di essere un pianoforte finché i miei occhi strato dopo strato

non lo spogliano della polvere. Il pianoforte non sa di poter dare la vita alla musica più dolce e bella, finché le mie mani non accarezzano il bianco e nero dei suoi tasti per poi premerli forte e il calore del mio corpo non lo riscalda nelle corde.

E quando lo sa, ah allora sì, allora si che rinasce la vita, la storia, la potenza di qualche nota ritrovata ed io sono là! A goderne la forza e la bellezza. Lui comprende il mio desiderio. Io spoglio la sua attesa. In cantina lo guardo. Facciamo l’amore

nel sogno. Ci rincontriamo su un foglio di carta. Uno sguardo, un ritorno alla vita.

Un sogno, un pezzo di storia. Solo con lui. Solo in cantina. Tutti abbiamo bisogno

di essere guardati, di essere spogliati. Sai non so ancora se sono io che guardo lui

o è lui che guarda me.”

Poi quasi sussurrato, come se lo stesse dicendo fra se e se disse piano “Quando lo vedrò scritto nell’inchiostro allora forse, lo capirò … credo io.”

Senza mai aprire gli occhi.

Il sangue caldo nelle vene della cameriera capitata lì per sbaglio, pulsava veloce, faceva a gara con il cuore. Il suo corpo era a intermittenza attraversato da brividi profondi, che non risparmiavano nessuno spazio di pelle. Nella sua mente si era creato un vuoto pieno di desiderio.

Ogni parola dello scrittore addormentato l’aveva estasiata, travolta, incantata.

Poi le sue gambe iniziarono a muoversi anche se a fatica e in maniera lenta, perché bloccate da una tensione che sembrava giunta allo stremo. Urtò la sedia a dondolo che piano, cominciò a portarsi in avanti, poi indietro e poi di nuovo in avanti. Osservò attentamente quel movimento: avrebbe voluto farne parte.

Le sarebbe piaciuto fare amicizia con quella sedia così fiera ma al tempo stesso malinconica. Seguì le curve armoniche del suo corpo come si seguono quelle di

un corpo di donna: con moderata attenzione, paura e curiosità, quasi si avvertisse

il rischio che c’è nell’andare oltre. Si chiese se qualcuno avesse mai apprezzato i particolari di quella sedia, prima di metterla in attesa, e adesso nascosti dal buio e dalla polvere. Si chiese se qualcuno ne avesse mai seguito il tempo e regalato una carezza. Forse nessuno l’aveva mai guardata veramente, capita e stimata e allora

lei, si era semplicemente limitata ad ospitare ogni volta un nuovo corpo senza sentirne il calore mai, ma solo il peso. Accompagnandolo in avanti e poi indietro

a un ritmo che mai era stato davvero il suo, morendo ogni volta da qualche parte. Come si muore ogni volta a un ritmo sbagliato, lo sapeva bene la cameriera

capitata lì per sbaglio che adesso nella penombra di una cantina, dava le spalle

ad uno scrittore addormentato e altro non desiderava che gli occhi di lui si posassero sul corpo di lei, ogni suo nervo era teso a chiamarlo. Chiuse gli occhi e subito dopo

si sentì afferrare le spalle, si lasciò guidare dalla forte stretta di quelle mani sicure e fece mezzo giro su se stessa. Occhi negli occhi con la bocca troppo vicina a quella dello scrittore addormentato.

La spinse giù, seduta sulla sedia a dondolo. Lui rimase in piedi e piano le si avvicinava. Si inginocchiò per slacciarle e sfilarle le scarpe, verdi, e i calzini.

Lo avrebbe lasciato fare, pensò la cameriera capitata lì per sbaglio e poi non pensò più a niente. Lui le sbottonava i pantaloni e lei tremava. Quando glieli tolse forse

lei, si fece sfuggire una lacrima. Si insinuò con le mani sotto il maglioncino nero, toccò la pelle del ventre e più su sfiorò quella delle spalle, le dita si aggrapparono

al maglioncino sfilandolo dalle braccia e dalla testa. Lei sorrise. Lo scrittore addormentato le portò via le mutande accompagnandole fino alle dita dei piedi, poi salì sulla sedia a dondolo, in ginocchio, con le gambe larghe abbastanza da farvi passare nel mezzo la pelle nuda della cameriera capitata lì per sbaglio, che adesso

lo guardava vogliosa di spogliarsi di quell’ultimo pezzo di stoffa, di svelare l’ultima intima maschera. Con le mani dietro la schiena leggermente curva di lei, sorrise l’uomo mentre le sganciava il reggiseno … raccolse l’ultimo velo e delicatamente

lo fece cadere giù dalla sedia a dondolo.

Cominciò a far passare i suoi occhi dolci lungo tutto quel corpo finalmente nudo, pulito e bello, a tratti illuminato dalla luce del mondo che entrava dalla piccola finestra. La cameriera capitata lì per sbaglio ad ogni respiro affannoso sentiva

l’anima squarciarsi, liberarsi dalle catene fatte di nomi, di buone maniere, di ricordi, di vestiti, di proibizioni e paure, del tempo, delle cose che saranno sempre e quelle che non saranno mai perché si stava facendo guardare e adesso non era più niente,

ma tutto. Un “essere” carico di forza, di gioia, di emozione e di ardore, di calore

e lei si ascoltava ridere, si ascoltava vibrare, fremere palpitare, aperta in quel corpo pieno d’anima, in balia dell’oscillare perfetto di una sedia a dondolo.

Riflessa negli occhi che la stavano guardando, toccando riscaldando, vide la sua

ri-nascita. Fu come se le fosse stata restituita la vita, nella penombra di una cantina. Non era più la cameriera capitata lì per sbaglio: la vita aveva risposto alla sua domanda. Vedeva quello che davvero poteva essere, non era più “in attesa” e c’era

una sola cosa da fare: godere di quella bellezza. Respirò. Si sciolse.

“Grazie ” si sentì sussurrare.

Aprì gli occhi convinta di trovarsi nuda con addosso il corpo di un uomo semisconosciuto, invece, era sola, vestita con una mano calda dentro i jeans

cullata dal dondolare perfetto, di una sedia a dondolo.

Con la schiena appoggiata ad un baule, uno scrittore addormentato nella penombra

di una cantina.

Da quali occhi abbiamo davvero bisogno di farci guardare?