Una fonte incantata
Nella vecchia casa di campagna, i grossi muri riparavano dal caldo torrido di un luglio in piena regola.
La tavola era apparecchiata e un buon profumo di sugo di pomodoro aleggiava nell’aria. Le tagliatelle fatte a mano, erano sul tavolo in attesa di essere tuffate nella pentola che borbottava impaziente.
Il rumore del motore cingolato annunciò il ritorno di mio padre dai campi.
Ppuntuale come sempre. A mezzogiorno.
Il suo stomaco non sbagliava mai.
Mia madre ed io lo sentimmo salire stancamente gli scalini, sbattere il cappello di paglia alla ringhiera e comparire sulla soglia, sudato e impolverato.
Sulla camicia a scacchi e sui pantaloni pagliuzze d’erba e fieno.
“È pronto?” chiese con voce roca guardandosi attorno.
“Sì” rispose mia madre. “Il tempo di lavarti ed è in tavola.”
Lo sguardo si posò sulle tagliatelle e un guizzo di piacere gli addolcì lo sguardo.
Era il suo piatto preferito.
Prese un bicchiere e si diresse verso il lavandino. Lo riempì.
“Non si beve da quanto è calda!” ruggì con disgusto. “Angelina vai a prenderla fresca” mi ordinò.
Le mie spalle si piegarono in avanti in uno sbuffo silenzioso. Ero già seduta a tavola in attesa di mangiare e non avevo nessuna voglia di andare alla fonte a prendere acqua fresca.
Era un caldo infernale e, al solo pensiero, le gambe sembravano diventare di burro. Sollevai lo sguardo verso mia madre, ma ella indaffarata ai fornelli, non si voltò.
“Fa’ presto che ho sete!” incalzò mio padre.
Mi alzai a malincuore e preso il bottiglione uscii.
Per un attimo mi mancò il respiro. Sembrava di entrare nell’inferno.
Scesi gli scalini e dopo aver percorso la breve salita arrivai sulla strada principale. Camminai sul ciglio dove iniziava l’erba. L’asfalto era terribilmente caldo. Sentivo il suo calore attraverso i sandali leggeri.
Attorno a me campi dorati, impreziositi da rubini, sonnecchiavano silenti.
Solo le mosche erano in fervido movimento.
Dopo una ventina di metri a sinistra nascosto tra il verde, un piccolo sentiero in discesa portava alla fonte. Mi accolsero tante piante verdi. Ad ogni passo l’ombra mi tendeva le sue amorevoli fronde e la testa che mi scottava avvertì un immediato sollievo. Avanzai.
Era fresco. La vegetazione rigogliosa, viva, brillante. Mi avvicinai alla fonte.
I rovi pieni di more, si aggrappavano al tronco degli alberi i quali, incuranti dei loro artigli stendevano rami vigorosi verso il cielo.
Foglie tondeggianti e larghissime, di un verde tenue quasi trasparente uscivano dalla terra umida e si facevano strada fra i sassi.
Sembravano di vetro.
Si allargavano a ciuffi, croccanti e fresche sullo stelo corto e tondo.
Mi guardai attorno e rimasi incantata dal verde di diverse tonalità. Pennellate tenui e cupe punteggiate qua e là da minuscoli fiorellini viola.
Il gorgoglio dell’acqua rompeva il silenzio. Parlottava fra sé emettendo suoni armonici, dolci. Un soliloquio continuo. Un canto mesto eppur travolgente, vivo, palpitante, cristallino.
Un angolo fuori dal mondo, un ritaglio di giardino fatato. Mi sentivo immersa in una fiaba.
Non mi sarei stupita se le bianche farfalle si fossero tramutate in piccole fate dalle ali trasparenti e se dai cerchi dell’acqua fosse emerso un fiore di cristallo, dai contorni eterei.
Osservavo ammaliata lasciandomi trasportare dalla fantasia, emozionata e stupita come fosse la prima volta.
Dinanzi a me, nascosto tra il fitto fogliame, un tubo usciva dalla terra e un getto d’acqua sgorgava impetuoso riversandosi nella vasca rettangolare di cemento. La vasca era colma e l’acqua fuoriusciva dai bordi rivestendola di luce.
Un raggio di sole tra le fronde colpiva a tratti le pareti interne ricoperte di muschio. Riflessi verdognoli si alternavano in un gioco di colori mentre la grossa quantità d’acqua nascondeva allo sguardo il misterioso fondale.
Piccole foglie gialle staccatesi dai rami galleggiavano spingendosi le une alle altre restie a lasciare lo specchio d’acqua. Un profumo di terra umida, erba bagnata e menta, mi arrivava alle narici fino in gola.
Le gambe stanche chiedevano di sedersi, ma il terreno infangato e i sassi scivolosi e sporchi lo impedivano. Appoggiai il bottiglione su di un sasso vicino ai miei piedi e libera, tuffai le mani dentro la vasca.
Con un gemito le ritrassi all’istante.
Era ghiacciata.
Spruzzai le foglie, i rovi, le more. Un largo sorriso aprì le mie labbra. Passai velocemente le mani sotto il getto d’acqua e ripetei quel gioco con entusiasmo.
Provavo un senso di libertà, di pura gioia.
Nell’acqua avvertivo la vita, vigorosa, prorompente, amorevole, giocherellona.
Staccai alcune piccolissime foglie di un verde pallido e le lasciai cadere a pioggia sulla superficie limpida. Osservai il loro dondolarsi, galleggiare, muoversi adagio, sospinte ai bordi dal piccolo gorgo sotterraneo.
Il ronzio di un moscone che mi passò vicino al viso interruppe il gioco e mi riportò alla realtà. Con riluttanza afferrai il bottiglione e lo misi sotto il getto d’acqua. Cambiai più volte la presa, perché le dita perdevano in fretta la sensibilità. Mano a mano che il bottiglione si riempiva sprofondava e solo con grande fatica riuscivo a sostenerlo. La scomoda posizione non mi era certo di aiuto. Dovevo stare in equilibrio sul sasso viscido e cercare di non avvicinarmi troppo al bordo della vasca dove l’acqua fuoriusciva silenziosa.
Quando il bottiglione fu quasi pieno con un colpo di reni lo estrassi e lo appoggiai a terra. Avevo le dita delle mani rigide e rattrappite. Con una smorfia di dolore le scrollai fino a quando il sangue riprese a circolare.
Il gorgoglio dell’acqua parve ridere dei miei mali continuando il suo canto melodioso in quell’angolo da fiaba.
Il mio stomaco emise un brontolio sordo. Il volto serio di mio padre mi apparve nella mente mettendomi fretta.
Accarezzai con lo sguardo le fronde, i rovi, i minuscoli fiori lilla, la vasca colma d’acqua, il rivolo tra i sassi. Le mie foglioline erano a terra lambite dal rigagnolo che spariva tra il bosco.
A malincuore afferrai il bottiglione e risalii il sentiero. Prima di affrontare il sole, lanciai un ultimo sguardo alle verdi fronde che nascondevano quel tesoro.
Poi il sole mi investì con una vampata di fuoco. La stanchezza arrivò improvvisa. Deglutii cercando di farmi forza. L’asfalto era rovente. Ripercorsi il ciglio della strada cercando l’erba. Il bottiglione sembrava pesare di più ad ogni passo, mentre le dita della mano si irrigidivano. Cambiai più volte la presa. Il bottiglione sotto il sole si appannò e iniziò a sudare. A causa della mia andatura, le piccole gocce che scendevano scomposte, disegnavano arabeschi.
Mi sembrò un finissimo merletto sul vetro spesso e verdognolo.
Lasciai la strada asfaltata e visto il traguardo mi rincuorai e aumentai l’andatura. Il bottiglione oscillava in precario equilibrio fra le mie mani a causa del terreno acciottolato.
Accaldata, le gambe pesanti, la testa che sembrava scoppiare e con le dita della mano intorpidite dalla fatica, salii fiaccamente gli scalini. Con un sospiro liberatorio appoggiai il bottiglione sul tavolo. Immediatamente mio padre si versò l’acqua nel bicchiere e bevve avidamente.
“Questa sì che è fresca!” esclamò con un sorriso.
Mi lasciai cadere sulla sedia, stanca, affamata, ma felice. Negli occhi la bellezza di un quadro verde, nelle narici il profumo di menta, nelle orecchie il gorgoglio dell’acqua, nella mente figure di fate e fiori trasparenti.
Un angolo meraviglioso, fresco, invitante, verde, unico.