Raccolta di poesie
Mani cantastorie
Lascia che le mie mani ti parlino
senza voce dopo quest’ora scossa;
spogliati e ascolta: la tua pelle
ha atteso già a lungo memoria di me.
Non ho ereditato carezze
solo mani cantastorie instancabili
per inventare un alfabeto di tocchi
e svelarti occhi di bimbi sul viso;
mormorano le paure, gli urti
lungo la gola e sulla nuca.
Concorrono i lemmi tra le dita
che raccolgo sulla curva delle spalle
nel racconto dell’età felice: piantavo
ossi di pesca, ciliegia e melagrana;
canto lenti labirinti di petali profondi
frutti rossi, dolci, carnali.
Sostano le palme sul petto
a sanare strappi d’ali
e la schiena è diario aperto
di quotidiane rese e resistenze.
Traccio sul ventre le antiche fiabe
della prima neve: mappe del tesoro
e sentieri di molliche sui fianchi
per il ballo del re sulla rocca
e solletico i piedi di scherzi e giochi!
Poi indietro, per tutto il corpo gridano
le unghie e i polsi, solchi di terre arate
e gloria di Scirocco africano!
E ti narro ancora di me, azzurra
per farti mare e poi cielo. E pace.
Rogo e cenere
L’alba livida si stende
sulle macerie annerite
di un’altra notte sterile
e sparge nell’aria
plumbea ed immobile
le mie ceneri spente.
Incandiscono le tenebre:
foglie morte ricoprono
questa terra debbiata
e i suoi estremi fumi.
Le stanze dell’aurora
Sono le tue dita ardenti sulle corde a portarti;
sciolgono note che fluiscono lievi sui muri imbiancati,
insidiano le pieghe dell’ultima veste a cadere,
s’inondano nel rigo attorto delle lenzuola
e strappi e sudore e sangue lascio sui fogli sparsi
mentre t’immagino guardarmi.
Erigo nuove stanze all’aurora
dipingendo sui vetri la tua forma siderale:
t’attendo, nelle ore eclissate, alla deriva
in assenza di luoghi, di nodi, di date
e m’arrovello nei lacci dei forse.
La mia voce
Tutta muta questa notte.
Per l’atra e torbida tenebra
molta s’affolta la nebbia
che pigra giace: ora tace
il canto lento del vento;
fendo fra immensi silenzi
lande d’oblio e di pietra:
inseguo tracce di passi
sull’oceano, del tuo incedere
ancora, altro tra gli uomini
senza tempo per sostare.
Lunga cenere è quel sole.
Non ho pace: hai spartito
le acque dei miei dubbi e poi
richiuse sopra di me.
Solo la mia voce ora ti trattiene
ma non per dimenticanza: è lo strido
di quel gabbiano[1] d’alto mare
che ritorna alla terra solo per fare il nido:
l’inchiostro tinge vele che doppiano
le più fredde e remote latitudini;
replica il barbaglio di un desiderio
si fa alba di speranza, certa scia
inatteso guado che le maree
calme del Tempo, al largo, non invadono.
[1] Rissa tridactyla.
L’ambulante
Risali alle montagne in festive transumanze
notturna carovana di generazioni;
è preghiera il silenzio lungo la strada
temendo le stagioni e il tempo avverso.
All’alba la piazza sboccia d’ombrelloni
sventolano bandiere di vesti variopinte:
attendi le tue donne all’uscita dalla Messa.
Sciamano vociando e calano sui banchi
riempiono concitate le mani e gli occhi:
allegre frotte di corvi avidi sul grano.
Le conduci in stormo a trasvolare
parando l’abito prezioso della sposa tirolese:
il corredo veneziano da cent’anni intatto nel baule;
le trine ad ago del paramento d’un altare:
l’ultimo rito in una remota pieve
diserta dal gregge e dal suo pastore;
i maglioni anni ’70 dei pescatori norvegesi:
paziente incrocio di ferri davanti al fuoco
novellando nel lungo buio boreale;
i drappi arabescati della tessitrice afghana
obliata miseria nella grazia più segreta;
il sari stampato della tintora indiana
madre bambina, sorriso rosso di betel;
i kimoni ricamati di minute figure orientali.
Prendi stracci usati a peso
rivendi storie e sentori cancellati
furono di donne abili, belle e rare;
tale ciascuna fai sentire:
di ogni signora e contadina
sei avaro e prodigo amante
nel tempo d’un baratto.
Acquista con poco la prescelta
ancora un minuto del tuo sguardo
il trofeo strappato a molte dita
il capo in cui riconosce parte di sé.
A casa, sul letto, lo spiega ancora
annodando nuova memoria
allo scarto d’altre vite.
Poi ripone nell’armadio i viaggi
e le illusioni d’un mattino al mercato.