Ashley Gardens
Non è poi tanto difficile – in fondo – trovare Ashley Gardens in una qualunque umida serata di novembre a Londra, appena usciti dal tube di Victoria, stanchi e un po’ frastornati per il viaggio, carichi di bagagli e di qualche tristezza di troppo.
Angelici homeless senza tetto accartocciati nei sacchi a pelo dell’esercito della salvezza si preparano a passare la notte sotto i portici antistanti la cattolica Westminster Church. A due passi c’è un cantiere aperto dove probabilmente costruiranno un centro commerciale o qualche grattacielo che non avrà nulla a che fare né con le casette a schiera a mattoncini rossi in perfetto stile vittoriano né tantomeno con la strada che scendendo porta direttamente al Parlamento e poi al Tamigi.
Ed è già poesia. Dura, pesante, senza ghirigori di autoreferenzialità bislacca di omologanti circuiti editoriali – Ehi, ciao, come stai, ci siamo visti all’ultima lettura, Dio, che palude, ho voglia di aria pura.
“Excuse me, sir, wher’is…?”
Ed è proprio qui, così stupidamente vicino al resto del mondo, che devi finalmente fermarti e salire su questa scala e in questo portone, così tanto londinesi che non ti puoi sbagliare.
Perché Jessica è lei: riconoscibile come non mai, con la sua voce sottile e il suo basco sulle ventitré, i suoi capelli d’argento e le sue mani indaffarate, superbe, trasparenti, versi e proclami sulla punta delle dita.
“Oh, perfect! How are you? Came here!”
E la sua casa è un tutt’uno, pernio del mondo, buco nero nello spazio senza tempo di chi viene e di chi va, tra foto, ritratti, libri accatastati, cucine-corridoi, scatole di thè, giornali accartocciati, strumenti musicali, tende e tendaggi, e il grande lampadario-opera d’arte – fatto con radici d’acero essiccate – e lungo pendente fino a terra.
Ci fa strada fino alla nostra stanza, in fondo a un corridoio stretto e buio, tra scatoloni pieni di libri e schizzi astratti alle pareti, ed è subito come se fossimo venuti qui chissà quante altre volte, mentre ci chiede affabile come è andato il viaggio e quanti giorni ci fermeremo e cosa fanno gli altri rimasti a casa, laggiù in Italia. La camera è piccola e tutta in legno, pareti e pavimento, e lampade a stelo in ogni angolo. Tutte uguali anche se di dimensioni diverse, come esperimenti d’arredo messi lì in attesa di un acquirente o di un esperto d’arte capitato lì per caso per l’organizzazione di un vernissage o di una mostra sullo stile retrò.
Perché accorgersi che qui l’arte è di casa, è dir poco. Qui tutti vanno e vengono tra un reading di poesia a Chelsea e una jazz session in un lurido pub di Soho, tra una lettura di testi medievali nella Kings College Library e un concerto di musica dodecafonica nei pressi di Leicester Square. Cuori solitari si affannano con leggerezza a comunicarsi a vicenda le prospettive del nuovo millennio senza preoccuparsi eccessivamente di essere capiti fino in fondo. Basta vivere, e muoversi ritmicamente tra nuovi scampoli di emozioni da trasmettere alla gente che sa bene dove e quando dirigersi, senza darlo troppo a vedere.
Oltrepassare la sofferenza di noi esseri troppo umani per osservare con distacco l’al di qua di un’esistenza a scatole cinesi dove i ricordi e i rimpianti si accozzagliano confusamente ai lampi di speranza regalati dal caso. Ora e adesso. Anche questo va bene. Mentre i ravioli nel pallido brodo al curry accompagnano improbabili lingue di bue affogate nella Wholegrain Mustard per tentare un dialogo appena accennato ai confini dei nostri mondi paralleli e concentrici al tempo stesso.
In attesa di nuovi segnali ci aggiriamo tra le presenze multiformi che affollano i metri quadrati di questo tempio del sogno umano, tra brochures degli eventi più disparati e i resoconti patinati dei viaggi in India degli amici lontani, tra metronomi di fattura ottocentesca alle pagine ingiallite del seicentesco poeta John Landor, anima della casa, fino agli arredi damascati, alle lettere scompostamente accatastate sul tavolino di teck, alle porcellane Royal Worcester e ai vasi cinesi, alle ultime traduzioni da affidare a Riccardo Duranti, alle cornici vuote, alle vestaglie di seta dimenticare sul puff, ai cappelli dalle fogge più disparate, lasciati distrattamente ovunque capita come per segnare un territorio come recinto sacro da osservare con rispetto e venerazione.
Senti voci rincorrersi tra paesi ed epoche diverse, ridere e piangere, un fatto di pancia, così naturale e scontato che potresti fermarti a parlare del più o del meno senza per questo sentirti più inattuale. Si susseguono onde di mare calmo.
Life art fundation.
Accommodating the arts bringing art to life
Un taxi nero nella notte per traghettarci al di là del corner dell’Hide Park, dove nuovamente le strade si fanno alberate e rassicuranti, come per avvertirci che Londra non è poi così tentacolare come potrebbe sembrare a un primo sguardo dal cielo, ma è possibile, anzi naturale, sentirti a casa tua come se per sbaglio ti fossi dimenticato di partire. Anche i taxi qui sono come case impolverate ma accoglienti, sanno di storie vissute e strapuntini poco usati, e viaggiano in silenzio per non dare nell’occhio e per fermarsi all’improvviso proprio là dove dovevi andare.
Lei guidava la piccola spedizione, non dopo essersi fermata prima alla lavanderia sotto casa, e indicava i luoghi delle sue letture come fossero stazioni di una personale Via Crucis.
“Jesus falls a second time / Again, a fall / Time to recall / Injury when / Lies offend love”.
Eravamo come per sbaglio a trafficare nei nostri pensieri e ci sentivamo a nostro agio, una volta scesi, mentre ci dirigevamo verso il luogo dell’appuntamento.
Lei comunque era lì a condurre le danze, muovendo le mani affusolate dalle lunghe braccia, creando figure nell’aria e dispensando sorrisi e amichevoli rimbrotti. Si muoveva a ritroso e poi d’improvviso si fermava, recitando versi tra i passanti increduli. La strada in leggera salita era arredata da entrambi i lati da classiche casette a schiera con le immancabili scalette che conducevano ai portoncini di legno smaltato bianco, come un romanzo di Charles Dickens. Poca gente passava, accompagnando i loro cani per la passeggiata serale. Persone gentili e affabili english stile ci salutarono per invitarci a entrare. Fu una bella serata.
Lei parlava col suo fare melodioso, senza preoccuparsi più di tanto di quel che noi capissimo nel nostro stentato inglese: ma tutto era chiaro lo stesso, perché l’atmosfera era quella giusta e gli sguardi e gli animi ci tenevano uniti e assolutamente consapevoli del nostro presente.
Lei riusciva a legare le presenze, a convogliare i sentimenti, a pregare per gli altri.
Come quando si stagliava in piedi davanti alla porticina del minuscolo paesino, a due ore d’aereo di distanza, recitando versi a James Baldwin, “Language can wrong. Fight! Language can right wrong. Fight for language!”, proprio al tramonto del sole invernale, e noi la guardavamo interdetti, appena disturbati dalla digestione del pranzo di Natale.
Così andarono le cose. E le sofferenti esistenze si tinsero del velo nostalgico dei ricordi, delle decisioni prese senza pensarci due volte e di quel mondo sognante che bisogna essere dei carrarmati per sopportarne il peso senza il timore di doverci rinunciare. Passeggiammo su e giù per le casette di pietra e le campagne spoglie mentre ormai il buio della notte si faceva intorno e il paese sempre più lontano si disinteressava di noi. Il giorno dopo avremmo fatto un reading al Caffè Letterario e fu veramente molto bello.
- Very nice, beautiful, oh, tank you my darling. Love, love, love.