Da: Stagioni – Antologia poetica

I passi di mio padre

Si stendono sulle erbe secche le ombre
delle pareti a chiudere occidente.
Le stesse mura vecchie senza arriccio.
Pertugi dagli interni e il caminetto
non era sufficiente negli inverni
a riscaldarci col suo fuoco stanco
di legna inumidita. Dal fienile
lo stesso svolo posa il mio pensiero
sull’erboso cortile ed i piccioni
tubano soli al suolo abbandonato.
C’era mia madre, magre braccia al cielo
con fare giovanile e, a passo lento,
mio padre che spargeva sopra l’aia
semi di grano e avena. Io li guardavo
seduto sui gradini inebriato
da estreme sinfonie che arpeggiava
con le sue corde l’arso solleone
su spighe genuflesse. Qui rampollano
le immagini tra i pruni e il beccafico
torna a bucare i frutti trafelato
mentre l’ammiro, sotto accovacciato.
Attendo che ritornino alla sera
le giovenche alla stalla.
In mezzo all’erba
le guide con la morsa ed un ramarro
che nella fossa guizza d’acqua smossa
dai tuffi svelti delle verdi rane.
Vane figure, immagini sfumate
consumano giornate ormai scorciate
d’odore delle reste sotto il sole,
d’un tintinnio e un fruscio ch’è quasi eguale
ai passi di mio padre sul viale.

 

Luglio

E mi giunge acuto il canto
di stridenti cicale
portato da brezze di sale
lente, affannate di calura
giù per la radura lucente;
mi trai nel solito stradone
tra spalliere bruciate,
contornate d’acre fragranza di grano,
e ancora i convolvoli agresti,
i sesami, i papaveri
sparsi dintorno:
gocce di sangue disciolte
sui fulvi vestiari
o di latte
da mammella divina cadute;
dondolio di vespe
sulla tua fronte
tumida di sudore
sulle ore di una pigra clessidra.
Mi attendo paziente
uno spento languore
di fiori essiccati sulle reste
del tuo letale calore.

 

Gente di casa mia

Vanno alle messi insieme i paesani
della mia terra e dalle falci
percosse dall’aurora che si leva
zampillano schizzi di luce.
Portano sulle spalle
il peso delle case. Non conoscono
letarghi nei loro pensieri, non sanno dei riposi,
ma a volte si soffermano alla brine
e le guardano distratti che attendono il sole
per svariarlo in brillanti prima di morire.
Poi, se c’è gramigna accanto ai filari,
ci lasciano le bestie a brucare
col fiato azzurro attorno alle narici.
È questa la mia gente; è senza nome,
risponde solo se la chiami a soprannome;
lo senti rimbombare tra le viti
gridato dagli amici in un saluto
se tagliano i viottoli dei campi aperti al cielo.
Sono come puntini tra il fiottare
di pigne ricamate in modo tale
che abbagliano a guardarle.
Conosco i loro pigli, i loro gesti,
conosco i passi svelti del mattino
e quelli di un ritorno che si attarda
calamitato addietro da un fisso pensiero.
Resta sempre qualcosa da finire. Se lo portano
a casa, nella testa;
ne parlano a quel tavolo di quercio
padrone di una stanza che balena.
E con la mente predicono il giorno
che immancabile profuma di vendemmia.

 

La saga degli ulivi

La saga degli ulivi mi racconta
storie vissute alle lame di un sole
che spacca la terra. E dei ritorni
a mari che fragravano di voglie
di spazi aperti ai margini di un fiume.
Naviga l’uomo strinto alle sartie
di legni scricchiolanti in balia
di venti fedifraghi a promesse.
Si schiodano dagli antri delle Murge
tempi sepolti che tornano a galla
per dirci di guerrieri d’oltre mare;
per raccontare schegge di battaglie
su terre seccate dal cielo. Bisbigliano
le donne coperte di nero
nell’attesa di un arrivo all’orizzonte.
Ancora i tuoi castelli imperatore
sfidano le ferite degli ulivi
che cantano al grecale. Quelle note
esperte di un millennio
parlottano di amori cortigiani e con i falchi
volano indifferenti al treno che strèpe.

 

Lesbo tinta di cielo

Lesbo tinta di cielo
vedo scoperta al mare
e le sue ciglia accarezzate
dai soliti liquidi respiri
degli antichi cantori.
E i suoi capelli sparsi
sul livido volto
battuto dal sole
e l’aria di tempesta
i flutti infrangente
sulle salate vesti
e tu anima in pena,
sofferente di spazi,
di amori perduti,
di passioni cocenti
in piccolo seno,
abbandonata al consumato scoglio,
rilucente pallidi raggi
di arcane lune
antiche e misteriose.
Il tuo sguardo
lucido tra l’ombre,
si perde fra i paurosi gorghi
di mari più lontani,
confinanti coi cieli,
fra caverne più ricche
di dei tra le penombre
della notte buia
ostili ai tuoi segreti,
giovane Saffo.
Nel peccato di esistere
ti unisci
ai rumorosi tuoni,
alle furie abissali
e quando splende il sole
ed i gabbiani attorno irrequieti
rallegrano il tuo cielo,la morte ti sommerge
ed il sereno regna supremo.