Mito e realtà degli ominidi
Frascati, Sala degli Specchi – 15/12/2011
Nel corso dei precedenti incontri, analizzando le opere di vari autori, abbiamo cercato di mettere a fuoco l’importanza del mito nella storia, e viceversa della storia nel mito, evidenziandone la tensione reciproca. La nostra tesi è che i miti, allo stato sorgivo, non sono delle favole. Poi lo diventano, nel momento in cui la mitopoiesi si trasforma in mitologia, ma inizialmente non sono favole, bensì delle rivelazioni sul senso della vita, indispensabili per l’avvio della storia, per la formazione della realtà. Ne segue che la storia non è separabile dal mito. Se ne può dissociare, e se ne dissocia, ma solo temporaneamente, per poi tornare a capo. E all’inizio troviamo sempre l’illuminazione del mito: una rivelazione improvvisa, appunto, una fiammata, uno scintillio che non nasce dall’intelletto razionale, ma vi giunge dall’esterno, dall’altrove, da chissà dove. Senza questa accensione non nasce alcuna cultura, non si forma alcuna storia, né prende forma alcuna umana realtà.
Il guaio è – ma è un guaio necessario – che a quel punto il laboratorio mentale inizia ad andare avanti per conto proprio, autonomamente, ad autoalimentarsi, a costruirsi e a svilupparsi su se stesso, isolandosi dal mondo reale ed affrancandosi dal mito, ossia dalla linfa che gli ha dato i natali. E va avanti così, creando artifici su artifici, sovrastrutture che scambia per cose reali, mentre sono soltanto astrazioni, elucubrazioni lontane dal buon senso e sempre più avulse dalla realtà. Una strada che inevitabilmente conduce verso il corto circuito, verso la torre di babele e verso il crollo delle civiltà. Ma giunti al termine del viaggio, non si può fare altro che ricominciare, tornare alle radici, riaprire la comunicazione con l’arcano, riaccendere il fuoco dei miti, riscoprire il senso della vita, della realtà.
Purtroppo non si può stare sempre nello stato di grazia. Bisogna attraversare la disgrazia per poter tornare nella grazia. E viceversa. Tutto è pulsazione. Tutto è mutevolezza, mobilità. Ciò comporta che la storia è ciclica, non lineare come riteneva il Vico e come pensava lo stesso Hegel, filosofi che ponevano il mito nelle origini preistoriche, anziché nelle origini archetipiche dell’umanità. Il mito non è prerogativa degli avi, della loro mente ingenua e primitiva, ma appartiene all’umanità di sempre. E se è vero che viene posto fra parentesi nel corso dello sviluppo razionale, viene anche riscoperto continuamente nei percorsi della creatività. Nel mito affiora il buon senso dell’essere umano, la sua conoscenza innata della vita, la verginità da cui egli si allontana per inseguire chimere, ma alla quale ciclicamente deve tornare, in un moto perpetuo di risveglio e di oblio, di rinnovamento e declino.
Vi chiederete cosa c’entra tutto questo con Aldo Onorati, lo scrittore che questa sera ospitiamo. Ebbene, come tutti saprete, egli è autore, tra le sue tante opere, di una mitica e conclamata saga dei Castelli Romani: il ciclo degli Ominidi, dove la leggenda si confonde con la realtà. Noi vogliamo parlare questa sera di quella straordinaria saga, degli Ominidi che lui descrive, e non per limitare a quel felice ciclo narrativo la nostra analisi, bensì perché sotto il segno degli Ominidi può essere davvero posta l’intera e vastissima sua produzione letteraria. Gli Ominidi, dunque, come emblema di un’intera poetica, di un pensiero che ha il potere di evocare il mito delle origini proprio nel constatare la fine di una civiltà.
Gli Ominidi di Aldo possiedono questa doppia valenza: nascita e morte, vagito e rantolo, eros e thanatos in un unico respiro. Negli Ominidi c’è l’alba e il tramonto della civiltà. Non soltanto della civiltà contadina, ma dell’intera civiltà, perché la civiltà – non dimentichiamolo – è nata con l’agricoltura, con la stanzialità, e la fine dell’una comporta la fine anche dell’altra. Il crepuscolo tuttavia preannuncia sempre l’aurora. Ed ecco che gli Ominidi, morti e sepolti nella storia, risorgono nel mito con potenza straordinaria, in attesa forse di fornire nuovi stimoli alle prossime generazioni e alle future civiltà. Non è fantascienza, questa, ma è conoscenza della realtà. La quale senza il mito non vive, perché sarebbe come un corpo senz’anima. La cultura contadina, in fondo, pur rappresentando una storica realtà, non è che un grande archetipo della coralità dell’uomo con tutto il vivente. Situato all’inizio dei tempi, questo archetipo continua a fare da sfondo all’intera parabola della storia dell’uomo, per tornare alla luce ad ogni rinnovamento, ad ogni reinizio della civiltà.
Diamo lettura a due brani tratti da La Saga degli Ominidi, e precisamente dai capitoli intitolati Funerale e vino e Una lunga, strana, interminabile attesa, dove si evidenzia la fusione di vita e di morte, di eros e thanatos, così tipica della scrittura onoratiana
Aldo Onorati è uno scrittore fra i più noti d’Italia. Conosciuto e apprezzato anche all’estero, da queste parti tutti sanno chi è. Si potrebbe evitare di enunciare la sua biografia, ma in una rassegna letteraria questo va fatto, quindi consentitemi di farlo molto succintamente. Nato ad Albano da una famiglia di coltivatori, è stato insegnante, prima alle elementari poi al liceo magistrale. Quindi ha collaborato come giornalista letterario a testate nazionali, quali L’Osservatore Romano, Avvenire, Il Popolo, Giornale d’Italia etc, e alla TV, terzo programma “Dipartimento Scuola Educazione”. Direttore editoriale di note Case editrici, scrittore, poeta e saggista, i suoi libri sono stati tradotti in varie lingue (circa una ventina).
Tra i libri di narrativa, molto successo hanno ancora Nel frammento la vita (V^ ed.), La saga degli ominidi (VII^ ed.), Lettera al padre (VI^ ed.), Gli ultimi sono gli ultimi (III^ ed.), Incontro con Zaccaria Negroni (X^ ed.). I saggi critici costituiscono un importante aspetto del suo lavoro: Il crepuscolo del Novecento; Boiardo ed Ariosto; Dante, Petrarca e Boccaccio; Virginio Cesarini, i Lincei, Galileo e la Roma di Urbano VIII; I cinque pilastri della stoltezza. Rivoluzionario il suo studio su Dante e l’omosessualità. Da anni porta avanti la critica dantesca, tenendo conferenze in Italia e all’estero, e non poche opere vertono sull’antropologia culturale dei Castelli Romani. Ha scritto anche volumi nel dialetto albanense, con impegno filologico.
Ho tratto un pensiero emblematico e provocatorio da “I cinque pilastri della stoltezza” (Armando Editore), un saggio che potremmo definire spiazzante e scandaloso per le tesi che vengono sostenute sui limiti e sul valore dell’intelligenza. La frase, posta in un contesto di ricordi personali dell’autore, suona così: “L’intelligenza era monopolio di una certa categoria e veniva identificata con il titolo di studio. Ma se vi dicessi che ho conosciuto più stolti nei laureati che negli analfabeti, qualcuno non ci crederebbe. Il buon senso, sale delle cose e misura quasi netta dell’intelligenza, non dipende dagli studi di grammatica e di geometria, ma da una predisposizione naturale”. Apriti cielo! Può un intellettuale raffinato come Aldo parlare in tal modo non tanto dell’intelligenza, che sarebbe già molto scomodo, ma finanche dell’intellighenzia, del mondo culturale e accademico, dell’intellettualità?
E questo è solo uno dei tanti strali che Onorati scaglia in quel saggio, dove polemicamente, con una requisitoria tagliente – una vera e propria filippica che si avvale del reportage, dell’inchiesta, dell’intervista e di una sorta di documentarismo giornalistico che la rende snella e vivace – egli sviluppa le sue tematiche più care, aggrumate intorno al conflitto tra natura e cultura, tra realtà e idealità, tra istinto e ragione. Ed è il clima incandescente in cui deve innestarsi la grande attenzione che l’autore da sempre ha dedicato al patrimonio antropologico dei Castelli Romani e dei Colli Albani in particolare, con i suoi ovvii e stretti rapporti con Roma ed anche con il litorale.
È una problematica modernissima, aperta ai venti del nuovo e pienamente calata negli orizzonti della cultura attuale. Una problematica che nulla ha di nostalgico, con quel realismo crudo, assurdo e paradossale che sfuma nell’onirico e spesso nel comico-tragico, ponendosi agli antipodi di ogni angusto provincialismo, nel solco delle correnti vitalistiche e irrazionalistiche, fortemente psicologiche della contemporaneità. Neppure nei suoi lavori filologici, dedicati al dialetto e alle tradizioni locali, Onorati dimentica queste atmosfere realistiche e leggendarie nello stesso tempo. Potremmo citare “Rivisitazione”, pubblicato da Armando nell’84, il cui sguardo è puntato sulla città di Albano, sui suoi personaggi (come Boccione, Cesputo, Spàracio, Fra Ruffino), sulle sue leggende (come quella della rivolta contro i Savelli), sui suoi luoghi caratteristici (come I Sampàveli, l’Anfiteatro, il Seminario, il Lago).
E che dire de “O Capeschiere”, edita nell’88 dall’Amministrazione Comunale di Albano? Quest’opera in dialetto albanense stretto non è soltanto una lista di voci caratteristiche, di figure tipiche e di contesti storici superati. Certo, è anche questo, perché è una documentazione storica, ma c’è un valore letterario molto più importante, cui lo stesso prefatore, Carmelo Marzano, accenna, nella sua nota introduttiva, laddove evidenzia che Onorati inserisce “un numero enorme di parole e formule dialettali in un contesto logico, in costruzioni di senso compiuto, così da rendere al vivo l’organismo vernacolare”. Identico discorso vale per “Albano addio”, edito da Corrado Lampe nel ’91 e contenente storie caratteristiche, poesie dialettali, nonché mulinelli di soprannomi dimenticati e da non dimenticare.
Ebbene, anche in queste opere minori Onorati non dimentica di essere scrittore della modernità. La matrice è la stessa che dà vita alle sue opere maggiori. Identiche le atmosfere crude ed assurde, identico l’amore per la terra e per il vino, sangue della terra. Identica la disperazione per una civiltà destinata a soccombere, un’angoscia che non ha nulla a che vedere con la letteratura ridanciana e bonacciona delle allegre gite fuori porta, o delle scampagnate ai Castelli. Qui non ci sono compiacimenti per immagini oleografiche, da cartolina turistica. Nessuna indulgenza per sbiadite memorie di felicità perdute. Ciò che affiora è una maschia, stoica accettazione per il disfacimento in atto. Una ferita mortale, il cui sangue tuttavia ridona vita a noi larve tecnologiche, a noi pallidi e languidi spettri metropolitani.
La realtà è al centro delle attenzioni di Aldo Onorati: una realtà spiazzante e complessa, deforme e contrastata. Mai univoca o schematica, essa mostra vistosamente i suoi eccessi, i suoi difetti, le sue contraddizioni impietose. Il ciclo degli Ominidi si nutre di queste atmosfere veristiche e al tempo stesso paradossali. Personaggi stralunati e sanguigni, gli Ominidi hanno connotazioni simbolico-mitiche intensissime. Sembra inverosimile che nel pieno del ventesimo secolo, e proprio alle porte della Capitale, possa persistere una tribù agreste e pagana come quella che Onorati descrive. Eppure, abbarbicata sui Colli Albani, ecco animarsi un’umanità primordiale tenacemente aggrappata ai suoi riti animistici, ai suoi usi semi-animaleschi. Una tribù neolitica, trogloditica, adoratrice della terra e del vino, che i millenni non hanno saputo cancellare.
È una scoperta antropologica che ha dell’incredibile. I personaggi ovviamente esistevano, ma prima che Onorati li descrivesse non se ne era accorto nessuno. E nessuno forse se ne sarebbe mai accorto in assenza di questo ritratto straordinario. La scrittura è talmente sanguigna e realistica che dubito abbia precedenti nella storie letterarie. Tanto che Domenico Rea ha potuto scrivere: “L’uomo e lo scrittore Onorati sono la stessa cosa; sono gemelli, hanno lo stesso sangue e il prodotto che ne deriva è qualcosa di diverso dalla letteratura e dalla narrativa. Non vi è finzione. Il sangue diventa inchiostro”. Se in una formula si potesse racchiudere la poetica di questo autore, io userei quella di realismo mitico, intendendo con queste parole una scrittura concreta, corposa e fortemente immaginifica. Una scrittura vivace e guizzante che parla sempre di cose e mai di idee astratte, distanti o lontane.
Una scrittura passionale, dunque, che nasce dalla vita e non una scrittura che parla della vita. La differenza è fondamentale, perché un conto è vivere parlando, o scrivendo come fa Aldo Onorati e con lui ogni altro autore degno di questo nome, un altro conto è parlare o scrivere astrattamente della vita. Più la parola è concreta, più affonda nella realtà, come questa di Aldo Onorati, più deve considerarsi ispirata. Da cosa? Dalla vita, dall’essere, dal mistero in cui l’uomo è immerso e da cui è circondato. L’ispirazione non porta, come si pensa normalmente, fuori dalla realtà, con la testa tra le nuvole, ma al contrario conduce nel flusso e nel magma più interno delle cose. Per questo il mito è vincolato alla storia, nonostante la storia se ne voglia dissociare.
La realtà è il mistero. Tutto il resto è astrazione, costruzione mentale. Utile, anzi utilissima, ma arbitraria. Il reale è irrazionale, ha affermato uno dei pensatori più fecondi e originali del nostro tempo, ribaltando il noto postulato hegeliano che sostiene il contrario. Sto parlando di Bruno Fabi, fondatore dell’Irrazionalismo Sistematico, corrente e manifesto di pensiero cui Onorati, non a caso, ha dato la sua adesione autorevole e incondizionata. Quando si nomina la realtà, si nomina il mistero. La cosiddetta realtà oggettiva è una riduzione mentale di comodo, utile allo sviluppo del pensiero razionale, ma bisogna essere ben consapevoli dell’artificio, perché non si possono estrapolare allegramente alcuni elementi, definendoli oggetti, dal complesso e immenso reticolo delle relazioni universali. È un arbitrio che si paga in termini di aridità, di povertà spirituale. Se non si è più che attenti – e non lo si è, purtroppo – si giunge fatalmente al blackout.
A quel punto si ricomincia daccapo. E non è un tornare alla preistoria, ma è un tornare allo stampo originario e, come tale, eternamente nuovo dell’essere umano. È un ripartire per nuove esperienze e nuove avventure. Amare le radici, pertanto, non è passatismo, come di norma si crede, ma è desiderio di rinnovamento. Le radici si rinnovano puntualmente: è questa la loro peculiarità, garantendo nuove gemme e nuovi frutti. Nel registrare l’olocausto della civiltà contadina, Onorati non fa che mostrare, di quella arcaica cultura, una vitalità portentosa. Se si leggono bene gli Ominidi, non possono esserci dubbi: il vero trionfatore morale, nonostante lo stritolamento subito, alla fine è Giovenale. Il quale non è la preistoria, ma è lo stampo costitutivo, il saggio archetipo dell’essere umano, quasi un Adamo nell’Eden, prima e dopo la maledizione.
Nella lettura del brano tratto da La Ballata della Morte, e a seguire il Capitolo del Sogno Chiave, si evidenzia la vena misticheggiante, di cui qui non parliamo, ma che va comunque enunciata, di Aldo Onorati. Si riferisce ad un sogno dell’autore, e per questo è fortemente onirico. Esce un po’ fuori dalle atmosfere della Saga, per quanto anche queste siano surreali. Per amore di contrasto si può leggere il brano intitolato Il grande Trebbiano.
Nella Saga la narrazione scorre tra zuffe di beoni incalliti e processioni notturne rumorosissime in onore di Bacco, da un tinello all’altro dei Castelli Romani. I racconti zampillano picareschi tra beffe, sarcasmi e discussioni interminabili, mentre orgiasti incredibili e decine di figuri arcigni s’addensano tra le pagine, nascendo ad ogni rigo. L’ironia serpeggia dovunque, fino ad avvolgere tutto in una coltre comicissima di amarezze, di sofferenze, di delusioni. Rispetto al realismo pasoliniano, dove le plebi rurali si trasformano e vengono assorbite negli orizzonti metropolitani, qui il mondo contadino resta refrattario ai tentacoli e agli abbagli del cosiddetto “vivere civile”. Non imborghesisce, e in fondo non si fa neppure emarginare. Preferisce suicidarsi nel vino, pago dei suoi antichi afrori.
Sta in questo epicedio l’assoluta novità degli Ominidi di Aldo Onorati. Con il loro sacrificio, essi ci fanno toccare con mano i limiti e le storture di una società boriosamente tesa ad affrancarsi da ogni legame con gli elementi, mentre non si può e non si dovrebbe sfuggire alla terra, nostra grande madre, qualunque sia il livello tecnologico raggiunto. Non si tratta di tornare al tempo degli asinelli e delle mulattiere. Nessuno si auspica un ritorno al bel tempo antico, che poi così bello non fu, se si pensa alle fatiche disumane in cui si viveva. Il mito della comunione dell’uomo con tutto il vivente appartiene all’umanità di sempre e può essere calato in tutte le ere, da quella delle caverne a quella dell’età spaziale.
L’urlo di Giovenale, allora – una sorta di animalesco filosofo, tra i personaggi fondamentali della Saga – deve essere considerato un grido ecologico da affiancare ai lavori più specificamente tecnici di Onorati su questo argomento. Ma tutto questo senza utopismi ideologici, perché Onorati non promulga panacee e quando parla dello stato originario, si guarda bene dall’idealizzarlo. Egli sa che nella condizione originaria il male ed il bene sono compresenti, a differenza delle visioni unilaterali e discriminanti che sempre s’impongono nella storia, perdendo smalto e forza morale, vitalità. Da persona saggia, e non da pessimista, Onorati è convinto che il mondo, di questo passo, non si salverà. Ma è lui stesso, inconsapevolmente, a salvarlo con questo ritratto dell’Ominide, dove ciò che si tramanda in uno scrigno prezioso è la radice vibrante e immarcescibile dell’umanità.
In conclusione citerei un brano tratto da L’eredità del sommo Giovenale.