Tra incanto e disincanto
Frascati, Sala degli Specchi – 24/11/2011
Tra Mito e Storia è il titolo dato alla nostra rassegna che si prefigge, con l’ausilio di poeti e scrittori, un breve excursus sul tema del rapporto fra Mito e Storia, analizzandone non soltanto la divaricazione, che è tipica dei tempi attuali, ma anche la tensione reciproca, il vicendevole abbraccio, cosa che oggi sta passando in secondo piano. La demitizzazione in atto nella cultura attuale, che tra l’altro non immunizza dal pericolo di cadere in balia di nuovi feticci da demitizzare, non deve essere letta a senso unico, come volontà di distruggere la stessa facoltà mitopoietica, estirpando alla radice il ceppo da cui nascono i miti. In realtà, quando si demitizza, quel che si vuole colpire è la mitologia consolidata, non certo la mitopoiesi, ovvero la facoltà di creare nuovi miti.
Volendo esemplificare: che cosa ha fatto il Futurismo, aggredendo e denigrando la vecchia mitologia? Ha stimolato la nascita di un nuovo mito: quello della velocità, della macchina, dell’azione. Mito, questo, che, forse proprio in onore del dinamismo inaugurato, è immediatamente andato in declino, lasciando spazio all’insorgere di un altro e contrapposto mito: l’ecologia. Possiamo chiederci: quale scegliere tra i due? Il problema non si pone, perché, nel momento in cui sorgono, i miti rispondono ad irrinunciabili esigenze spirituali. Poi diventano feticci da demitizzare. Lo diventano con l’usura. Ma a quel punto la storia torna improrogabilmente ad immergersi nella linfa dei miti. La storia è messa in moto dai miti. Quando poi va in decadenza, va in crisi, c’è bisogno della mitopoiesi, di una nuova fiammata creativa.
L’incontro che oggi proponiamo è atipico, in quanto pone a confronto poetiche non solo diverse, ma opposte, la cui convivenza è possibile soltanto facendo ricorso al magma complesso ed unitario dello spirito umano. Da un lato abbiamo il poeta Domenico Gilio, con la sua poetica dello stupore vitalistico; dall’altro abbiamo due gialliste, Loredana D’Alfonso e Maria Rizzi, che, con modalità differenti, parlano del male di vivere contemporaneo. Una comparazione stridente, non soltanto per via del genere letterario, ma anche e soprattutto per gli orizzonti e i contesti culturali. Un confronto che arditamente proponiamo, per mostrare in fondo come le più grandi diversità si articolino e si congiungano in quel comune e nascosto cuore dell’uomo, cui possiamo ben dare il nome di Armonia dei Contrari.
Prima di entrare nel vivo dell’incontro, consentitemi di leggervi un breve profilo biografico dei tre autori.
Loredana D’Alfonso, laureata in Scienze Politiche, è giornalista pubblicista dal 1991 ed ha esordito nel 2000 con il romanzo Fiamme nella memoria (Firenze Libri). Nel 2006 ha pubblicato il giallo Delitto ad alta quota in una Antologia edita da La Nuova Europa, e nel 2007 la raccolta di gialli I racconti del meridiano (Il Filo Editore). Nel 2011 ha vinto il Premio speciale del Comune di Montignoso nel Concorso di poesia e narrativa Voci 2011 con il racconto Il biglietto vincente. Inoltre ha pubblicato due racconti di genere giallo ispirati al mondo del vino: Il nettare del Dott. Von Krausen su Il Sommelier nel 2002, ed In vino veritas su Il Corriere vinicolo nel 2005. È presente nella 3a edizione dell’Agenda del Giornalista Gli specialisti della vite e del vino, edita dalla Unione Italiana Vini.
Domenico Gilio, oltre l’intensa attività professionale di Ispettore Tecnico del Ministero della Pubblica Istruzione, ha curato con passione le Lettere, in particolare la Poesia, che egli vive come la riscoperta della dimensione interiore più autentica dell’uomo. Sue opere sono: Tenere Corrispondenze (RCV Radio Editore); Il Tempo e le Parole (Giardini, Pisa); Polvere rossa (Sovera,Roma); Pagine Acheruntine (R. Risa Roma); La cetonia sul cardo (Telemaco, Potenza). Con il Premio San Valentino di Terni (2006) è stato nominato Accademico Valentiniano, mentre l’Ass.ne Padre Raffaele Melis l’ha insignito del Premio Speciale dei Benemeriti della Cultura per il 2008. Sue liriche figurano su riviste specializzate nazionali ed internazionali. Promuove caffè letterari nel Comune di residenza, Ariccia (Rm).
Maria Rizzi, laureata in Sociologia, ha pubblicato nel 1991 il volume di poesie Il coraggio di scegliere le ali (Edizioni del Leone), nel 1995 I cancelli del vento (Firenze Libri) e nel 1997 Siamo nuvole (Club degli Autori di Melegnano). Nel 2001 e nel 2002, i libri Aironi nel vento e Ombre di sogni nascono dai bonus della Casa Editrice Menna per il conseguimento dei primi premi. Nel 2003 ha iniziato a cimentarsi in prosa, ottenendo immediati riscontri in numerosi premi letterari. La scrittrice ha composto circa 70 racconti e 2 romanzi, il primo dei quali, Anime Graffiate, di cui abbiamo oggi due copie in anteprima, è in stampa presso i tipi di Corpo 12 – Giallomania. È co-fondatrice del circolo I.P.LA.C. (Insieme Per LA Cultura) e si dedica da alcuni anni all’organizzazione di eventi, come il concorso letterario Voci, nonché alle prefazioni e presentazioni di libri.
A questo punto entriamo immediatamente nelle atmosfere letterarie di cui vogliamo parlare, attraverso la recitazione di alcune pagine e di alcune poesie: Una corda tesa sull’abisso, novella di Maria Rizzi e un brano tratto da: I racconti del Meridiano di Loredana D’Alfonso, intitolato: Chiaro di luna.
Parliamo ora in dettaglio delle poetiche dei tre autori. Di Domenico Gilio analizziamo La cetonia sul cardo, silloge edita da Telemaco Edizioni nel 2010, con prefazione di Aldo Onorati. Qual è la dimensione dell’uomo in questa poesia? Egli si trova immerso in un microcosmo, in un paesello, microcosmo lui stesso, piccola tessera di un grandioso mosaico cui è armoniosamente e misteriosamente collegato. Non è lui il centro del mondo. L’antropocentrismo è morto e sepolto, ed egli sa di vivere in periferia. Una periferia, tuttavia, profondamente connessa con il centro, tanto da potersi considerare a sua volta centro, piccolo fulcro dell’armonia universale. Dovunque, infatti, è il centro dell’infinito. L’uomo vive in quel piccolo e prezioso angolo del mondo, che è lui stesso innanzitutto, ma che è pure il luogo che gli è stato assegnato, ed è lì, in quel minuscolo scoglio dell’universo, che è chiamato a vivere e a far vivere l’universo intero.
Il luogo ha un nome preciso: Acerenza, in provincia di Potenza, paese in cui il poeta è nato e dove si trovano le radici della sua infanzia contadina. Da quell’incanto naturalistico, egli non si è mai distaccato. Se l’è portato dietro nelle varie vicissitudini della vita, dovunque questa l’abbia portato. Ed è una luce viva, presente, non una memoria nostalgica, legata al passato. Non è una poesia orfica, quella di Gilio, una poesia dell’assenza che evoca gli dei mancanti. La sua visione del mondo non è quella della teologia negativa, neoplatonica o keerkegaardiana. Non è quella, ossia, della frattura irreparabile tra l’umano e il divino, ma quella della presenza del divino nel mondo: non di Dio in prima persona, ma della Sua forza effusa nell’universo intero.
È un divino calato nel mondo, quello di Domenico Gilio. Una spiritualità, in fondo, di taglio francescano, dove l’universale è incarnato nel particolare, nell’individuo che vive nel paesello, nel misero giro delle sue stesse ossa e dei monti da cui è circondato. È lì che misteriosamente sosta l’Assoluto. E non c’è distacco tra materia e spirito, tra ciò che è contingente e ciò che è immortale. La separazione fra i due mondi è un’illusione, un inganno dell’intelletto, da cui nessuno ovviamente (neppure il poeta) è immune. Ma la vita rinvia continuamente alle fonti da cui la vita stessa viene.
È un allineamento, un’osmosi, un flusso naturale. Tutto nasce da dentro per venire fuori. La superficie presuppone la profondità. I fenomeni che affiorano hanno una lunga gestazione nel profondo. Gli stessi linguaggi dell’uomo vengono da lì. C’è un a priori dei linguaggi, ed è la vita dell’Essere, che gli artisti e i poeti da sempre definiscono “La Musa”. Gilio esprime questo rapporto così: “Prima erano le cose,/ poi le parole vennero, gemmanti./ E fu un nuovo stupore.” Quindi aggiunge: “Muse del cuore, non smettete il canto,/ se l’aurea fiamma dell’estate cessa/ e vanno via le rondini/ e arida ogni umana allegria rimane./ Parole liete, nate nella notte/ a dare luce all’anima. Risuoni/ come uragano questo canto… folle!”.
Ebbene, questo non è il canto anestetico di Orfeo, la cui testa mozzata continua a cantare sulle acque del Lete a dispetto di ogni sventura. Non è il canto della nostalgia del divino, ma il canto della sua presenza, della sua epifania nel mondo. Quel canto che non nasce dall’intelletto, ma giunge all’intelletto, in particolari momenti di grazia, dall’arcano. In altri momenti, indubbiamente, lo stesso intelletto vacilla e la sua fede viene meno. Sono i momenti in cui Euridice scompare, i momenti in cui “vanno via le rondini/ e arida ogni umana allegria rimane”. Ma non è una scomparsa reale. È un eclissarsi della grazia di fronte alla mente umana; un eclissi che poi passerà.
La flessione tuttavia è inevitabile, e il poeta si chiede “Perché in questo calice d’essenze,/ il dubbio serpeggiò/ inappagato, infido/ e l’universo intero abbrividì?/ Quale vaso si aprì d’ogni peccato?”. E ancora: “Solo ai figli dell’uomo/ sotto il peso del dubbio/ altra norma s’impose,/ altra promessa / Il rischio e la domanda/ inascoltata/ sul perché del tutto/ … / Bisogna essere/ vigili nell’ora/ che la terra da un trono di splendore/ apre il suo grembo d’oro/ a rinnovare il mito. Sarà l’uomo/ pronto a incontrare Dio?”. L’uomo ha un percorso da fare. Involutivo ed evolutivo. Deve uscire dall’Eden per potervi rientrare. Il poeta è consapevole che “la stanza degli Dei sta in alto,/ in alto./ Irraggiungibile!”. Eppure, dice, io “cerco solo la strada/ che mi sorrise un tempo;/ l’amore che faceva ogni mio passo/ alla vita, fedele”.
Domenico Gilio crea una poesia dello stupore e dell’incanto, navigando paradossalmente nei mari tempestosi del disincanto, nel naufragio totale. Egli dice: “È difficile vivere,/ non solo/ doloroso./ Ma la cenere/ della sconfitta non distrugge il fuoco”. Ed “è umano, tutto umano/ l’arcano che si svela”. Dio è coinvolto nel destino dell’uomo: “se mi perdo io, mi avrai perduto Tu”. Un cammino impervio, pertanto, dove tutto traballa, ma un cammino che deve essere affrontato. “Tutto è vaga parvenza;/ mai nulla è dato intatto;/ mai nulla puoi fermare”. E quando tutto sembra crollare, inizia un giorno nuovo, più luminoso che mai. Ciò che corre verso la Fine, in realtà corre verso l’Inizio, per cui si torna perennemente a capo. È questa la fede che Domenico Gilio riesce a comunicare. Una fede che si alimenta del dubbio, perché, come egli scrive, “ogni creatura/ negli insoluti enigmi/ è più vicina a Dio”. La vera fede è macerazione, non fideismo. Così, come il vero dubbio, non è arida ed aprioristica incredulità, ma macerazione ancora e sempre.
A conclusione di quanto detto ecco l’emblematica poesia di Gilio: Caos primevo e Dio (pagg. 36/37).
Ed ecco le due gialliste, con umori ed orizzonti di tutt’altro tipo. Esse si muovono sul terreno realistico delle concrete relazioni e delle esperienze umane. Le atmosfere sono esistenzialiste e riguardano il vissuto quotidiano. Si direbbe che tutto ciò non ha nulla a che fare con il mito, ma non è così. L’essere umano viene qui sopraffatto dall’azione, dall’obbligo di correre nella vita di tutti i giorni, dalle proprie responsabilità sociali. Difficilmente egli riesce a padroneggiare se stesso, ad essere in qualche modo presente a se stesso, perché la sua interiorità è deturpata, violentata. Eppure è qui che nasce la nostalgia del mito, il rimpianto per la pienezza smarrita.
Ne I racconti del Meridiano di Loredana D’Alfonso (Edizioni Il Filo), la nota a parer mio dominante è l’aggressione subita dal singolo per causa di eventi incalzanti da cui è sovrastato e che lo tengono praticamente in ostaggio, non lasciandogli spazi di libertà interiore. L’uomo è come rubato a se stesso dalla realtà in cui è immerso e si trova ad operare. Una realtà grigia e sferragliante, pregna dei miasmi e dello smog dei moderni agglomerati urbani. Non è la minuscola realtà del paesello, ricca comunque di slarghi cosmici e rapita da afflati universali, di cui abbiamo prima parlato, ma è la macroscopica e soffocante realtà megalopolitana dei nostri tempi, dove si celano storie raccapriccianti e perverse, accadimenti mostruosi, disumani, seppure alla fine splendidamente umani.
Cinque sono i Racconti del Meridiano: Le luci rosse di Amsterdam, Chiaro di luna, Delitto alla città morta, Una voce al telefono e La valigetta nera. Un popolo di sregolati (prostitute, strozzini, drogati, eccetera) si muove disordinatamente intorno a figure di ispettori e commissari che svolgono il loro lavoro con puntigliosa e tenace professionalità, ma che hanno a loro volta vite private disastrate. Sentite, a titolo di esempio, questa rapida annotazione riguardante il malinconico commissario Martin Gregg, perdente come tutti gli altri nella sfera personale ed intima, nonostante i successi professionali: “Certo, scrive Loredana, nella vita privata non l’aveva aiutato il suo lavoro da ispettore, una professione dove contavano solo i ragionamenti, e lo sforzo di ricostruire, come in un puzzle, sempre la verità, quella nascosta, passando attraverso passioni malate e moventi deliranti”.
Nella vita privata è dunque l’assurdo a trionfare. Si renderebbe necessario uno scavo psicologico, un’applicazione autoanalitica, un’introspezione su se stessi condotta in prima persona, ma ciò non è consentito dalla centrifuga e convulsa vita in cui si è proiettati. Nella narrazione di Loredana gli accadimenti si accavallano freneticamente, con colpi di scena che alimentano la suspense ed attraggono fortemente il lettore, ma lasciano sul campo, irrisolti, tutti gli interrogativi. Naturalmente gli ispettori sono bravi e la verità viene sempre scoperta, ma nessuno riesce a capire i veri e profondi moventi della psiche umana.
È una scrittura scattante, nervosa, quella di Loredana, dove abbondano, sia pure inespressi, milioni di punti interrogativi. I ritratti psicologici sono netti, ma sfuggenti ed enigmatici. A volte sono solo abbozzati. E non per sciattezza, bensì per scaltrezza e raffinatezza narrativa. Sono personaggi che risultano struggenti ed attraggono proprio per la fuggevolezza delle pennellate, per l’impossibilità di ritrarre il vero e profondo aspetto delle figure e delle cose. Gli eventi sono veloci al punto che a volte non si lasciano neppure raccontare. Si ha l’impressione che la penna della scrittrice non riesca a reggere il passo di una realtà così tumultuosa.
Nel racconto di Roberta, ad esempio (Una voce al telefono), la protagonista entra in un vortice onirico il cui svolgimento non può venire colto dalla scrittura. E la narrazione rimane sospesa, incompiuta. Si resta in balia di eventi inconoscibili: accada quel che deve accadere. È una scrittura, quella di Loredana D’Alfonso, che presenta pertanto due livelli narrativi: uno espresso e l’altro inespresso, volutamente in ombra, ma di pari entità e spessore. Il tutto per evidenziare lo scollamento fra realtà esistenziale e mistero interiore. Ed eccoci, appunto, nel rimpianto, nella nostalgia del mito.
Dell’altra narratrice, la giallista Maria Rizzi, presentiamo, oltre a qualche novella, il romanzo “Anime Graffiate”, edito da Corpo 12 – Giallomania. La scrittura di Maria Rizzi si muove su un binario parallelo a quello di Loredana, con peculiarità e differenziazioni tuttavia sostanziali. Intanto occorre dire che il giallo di Maria Rizzi dà molto più spazio all’esame psicologico. Di conseguenza, l’intreccio degli eventi, che pure è avventuroso, risulta più lento di quello di Loredana. Inoltre, in Anime Graffiate, i luoghi sono taciuti. Non si sa dove le vicende si svolgano, non si dice. E questo è un altro elemento di distacco rispetto a Loredana, la cui scrittura è invece sempre analitica, legata alle cose, ai fatti, ai dettagli oggettivi.
Il campionario umano, in Anime graffiate è però ricchissimo e c’è un senso molto vivo della pietas per le sventure e le miserie umane. L’azione è anche qui in conflitto con la vita interiore, ma si registra una forte reattività nei confronti del destino avverso da parte dell’essere umano. Qui la poetica della ferita, che è tipica della scrittura di questa narratrice, conduce verso la ricucitura dello strappo, verso la cicatrizzazione, la sutura. La personalità letteraria ed umana di Maria è un fiume di passioni in piena. A volte l’uomo è travolto da queste passioni, altre volte è invece lui ad imporsi passionalmente sul destino. Quel che conta è che egli lotta sempre e comunque. Non si adegua supinamente. È un imperituro Ulisse, sempre pronto a combattere, a riprendere in qualsiasi momento lo scudo e l’armatura.
L’ispettore Stefano Segni, protagonista del romanzo, si trova ad indagare su di un complesso caso di malavita organizzata, che coinvolge grossi calibri dell’alta società in un giro di malaffare legato alla droga e allo sfruttamento della prostituzione minorile. Egli riesce a salvare le giovani vittime, ma in parallelo conduce una sua vita privata dissestata. Separato dalla moglie, Giulia, ha una figlia, Valentina, che viene adescata in un giro malavitoso consimile, rifiutando ogni aiuto del padre. Anche qui, come in Loredana, c’è una spaccatura tra vita pubblica e vita privata, tanto che l’ispettore, confrontandole, si trova a confessare: “Possibile che sia così facile sbagliare con gli amori acquisiti e accuditi per una vita e conquistarne altri, sconosciuti, con qualche sorriso, poche parole dolci… Sto diplomandomi amico del cuore di queste figlie dell’infamia, senza aver meritato il titolo di genitore”.
Una serie di vicissitudini amare, ma molto suggestive – che non vi racconto, perché il libro prima o poi sarà disponibile e dovrete leggerlo in prima persona – condurrà l’ispettore, non del tutto indenne, ed anzi alquanto danneggiato, fuori dalle sabbie mobili e fuori dai mari procellosi. Le ferite si cicatrizzano e le esperienze negative lasciano in definitiva una grande ricchezza in coloro che le hanno attraversate. Sono storie del male, quelle descritte da Maria Rizzi, che in definitiva fanno bene all’anima. Corroborano e irrobustiscono la spina dorsale.
Probabilmente la psicologa, Laura, verso cui si indirizzano infine – ben corrisposte – le attenzioni amorose dell’ispettore) pronuncia una frase emblematica, che mi sono appuntato: “Incredibile, ‘sta vita riserva sorprese continue, devi correrle dietro e basta. È importante nel bene e nel male”. Ed è sempre Laura a dire: “Le persone sottoposte alle sofferenze si elevano di spessore, misurano l’esistenza con un altro metro”. Non c’è, tuttavia, un apice evolutivo. In un’altra parte del libro è detto: “L’uomo nasce incompiuto e tale resta. Viaggia per raggiungere determinate mete e durante il cammino cade, si fa male, sbaglia. L’importante è rialzarsi, tenere alta la testa e andare avanti”.
A suggello di quanto detto, due brevissimi brani: uno costituisce l’incipit di Anime Graffiate, appunto, e l’altro l’incipit di Fiamme nella memoria di Loredana.
L’altro relatore, che ora estenderà le sue analisi sulle due scrittrici, esaminandone altre opere, è Pio Ciuffarella, qui presente, di cui ora leggo una breve nota curricolare. Dopo aver conosciuto, sul finire degli anni ’60, David Lees, noto fotogiornalista di Life, che segue come aiutante nell’incontro tra Nixon e Paolo VI in Vaticano, è agli anni ’70 che risalgono le prime esperienze come fotografo professionista. Ma è negli anni ’80 che inizia ad acquisire grandi esperienze nei settori del reportage, della pubblicità, dell’attualità, dell’architettura e della riproduzione di opere d’arte. Partecipa a concorsi di settore e inizia ad esporre in personali e collettive con una ricerca sperimentale sempre più personalizzata.
Negli anni ’90 entra in contatto con alcuni artisti dei Castelli Romani, avviando una proficua collaborazione con scrittori, poeti, pittori e scultori e dedicandosi anche alla critica d’arte e letteraria. Le sue Fotomonitor, frutto di manipolazioni multiple tra fotografia, video e computer grafica, sono esposte nel 2006 in una grande mostra promossa dalla Fondazione Giuseppina Saragat presso il Museo Geofisico di Rocca di Papa. Ora scrive e dirige soggetti per il cinema e la televisione. Il ricorso ad un esperto del settore cinematografico si giustifica con la particolare impostazione filmica della scrittura delle gialliste di cui abbiamo parlato.