In questa sua ultima silloge, dedicata alla moglie da poco scomparsa, Carmelo Consoli ripercorre tutte le stazioni di quel misterioso e doloroso calvario che è la morte, in special modo la morte di chi si ama, in questo caso la morte della propria donna.
Si tratta di un calvario di totale e spietata sofferenza, con la puntuale, sistematica rivisitazione dei momenti più drammatici che hanno contrassegnato un’esperienza tanto terribile e alienante.
E ad ogni stazione di siffatta via crucis si contrappongono, quasi a voler allontanare il male ed esorcizzare il dolore e la morte, i ricordi di quei luoghi e di quel tempo felice che videro un uomo e una donna (un’ape e il suo calabrone), librarsi imprendibili nell’aria profumata di giardini e serre, incontrastati dominatori del cielo, prìncipi della terra e padroni assoluti dei suoi fiori e dei suoi frutti: “Così vivemmo tu da ape io da calabrone / in un volo di stagioni e colori” (Il calabrone all’ape).
E quelli che prima erano il tempo e i luoghi della magia e del sogno, ora sono il tempo e i luoghi della memoria e del rimpianto per un Eden irrimediabilmente perduto, per quell’Eden che vide un uomo e una donna cantare l’amore in ogni sua sfumatura e tessere inni di gioia alla vita, al creato e ai suoi prodigi: “La terra delle meraviglie fu la nostra / esistenza quotidiana, nei giorni e giorni dopo, / nelle gioie e nei dolori” (ibid.).
Nella progressione del male e dell’inquietudine, costante è il rinvio a quei momenti incancellabili, a quella dimensione di cui il poeta ricostruisce, con tessere amorevolmente e gelosamente custodite nello scrigno delle cose buone della vita, un puzzle sorprendentemente luminoso e vivo, icasticamente e indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore, e che ancora manda bagliori e luce: “E venne il giorno gradito a Dio, / al coro intero delle lune, dei soli, delle stelle. / …/ Uscisti dai ridenti filari dell’uva, / dalle chiome degli ulivi e ancora prima / dalle viscere profonde delle passioni eterne. //…/ Mi hai benedetto perché eri la stella attesa, /…/ Mi hai benedetto perché ti ho riconosciuta, / seguita, amata, angelo fiondato dal destino” (Mi hai benedetto).
Fin da “Andante con sgomento”, sezione di “Prologo di un sogno”, la prima delle tre parti in cui si divide la silloge, si entra già nel vivo del dramma; la narrazione risulta stringente e concitata, precipitano gli eventi, si spegne poco a poco, stillicidio lancinante, ogni speranza e ogni orizzonte: il mostro aleggia con tutto intero il suo malefico sortilegio; ogni forma di contrasto e di opposizione si consumano in un velleitario, inutile e vano tentativo di arginare il progressivo e inarrestabile compiersi degli eventi: “(…) Inizia la “Via Crucis”. / Calvario di un progetto maledetto. / Altrove l’estate è dolce promessa, / vita che sboccia, profumi di lavanda. / …// E via la danza del passo, / del gran passo tra vita e morte. / Dalle tredici alle quattordici, dalle diciannove alle venti; / arrivare, ripartire, ritornare, sapere, / sperare, illudersi, pregare / … / Seguire la curva scendente del dolore” (Open space).
Le tappe di questa insostenibile odissea sono scandite dall’inesorabile cadenza dei giorni, tutti meticolosamente annotati in una diaristica e spietata sequenza delle tappe della fine.
Anche nella seconda parte, “Piano, pianissimo, senza respiro”, la cadenza dei giorni annotati in esergo ad ogni titolo delle liriche ci consegna lo spartito di una vicenda umana e sentimentale vissuta simmbioticamente dall’ape-donna amata e dal suo calabrone-poeta nella terribile condivisione di ogni stilla di dolore: “Tutto inutile, radiografie, tac, ecografie / e ancora inutili torture. / … / Parlano i bianchi profeti; hanno scrutato / … // Parlano di una terra ancora buona / per l’amore che ci unisce, per dirci il non detto / … / Ma tu fiore di campo sfiorisci” (Tutto inutile).
Siamo dunque alla resa, all’abbandono di ogni speranza, alla disperante preghiera che il calabrone rivolge alla sua ape “Sorridi fata meraviglia di orti e giardini, / non devi morire” (Non devi morire); preghiera che il poeta, nella sua umanità dai diversi registri, rivolge a Dio (Preghiera), dapprima con toni concitati, quasi blasfemi: “Dove sei, Dio del miracolo, / del mattino felice, delle stelle diamantine? / In quale galassia piangi / o sorridi per il mio lamento? / Tu dove sei in tanto scempio? / … // dov’è il miracolo, qual è la vita?”; poi mediante un approccio più supplichevole e fidente: “Non lasciarmi nel vuoto nero dei ricordi / ritorna Dio dei fiori, delle farfalle, / … / Non lasciarmi, riportami alla lavanda, / ai gelsomini, alla mia donna ape”; infine replicando i toni di sfida, in un umanissimo tentativo di rivolta e di denuncia per quello che il poeta ritiene un inaccettabile inganno: “Senza Te, senza la mia Eva moribonda / dov’è il miracolo, qual è la vita?”.
Ma il percorso ormai si compie; tutto è perduto. Nella sezione “La morte” la parabola umana e terrena della donna tanto amata si chiude. Consummatum est.
Ed è una scelta, per il critico, e un segno di rispetto, non entrare con gli arnesi del mestiere in questa sezione, che appartiene ai soli protagonisti della storia, anche se il poeta ne fa partecipi i lettori, dai quali credo si aspetti un unico tributo, quello della partecipazione e del silenzio.
Chiude la silloge, con otto liriche, “Il tempo che verrà”, sezione in cui, sfogliando immagini, momenti, scampoli luminosi e indimenticabili della vita vissuta, Carmelo Consoli ci propone un canto che diviene pura nostalgia, rimpianto, memoria d’amore, fino a trasformarsi in trepida elegia, testamento spirituale. Il poeta proietta la vita che resta in un futuro inevitabilmente popolato di ricordi, e le liriche si stemperano in una serena e cristianamente accettata rassegnazione: “E il tempo si è fatto meraviglia della morte. / Si sono commossi le terre, i pianeti, / le galassie, i mondi delle lune, delle stelle. / Il cosmo intero ha guardato all’ape / con occhi pietosi, con l’amore di Dio” (Si sono fatti meraviglia). E’ ancora la forma dialogica a chiudere le pagine del libro. In un’atmosfera sospesa ed esclusiva, il poeta trasforma il soliloquio in una corrispondenza teneramente colloquiale, con la sua donna a fargli da sponda e a confortarlo e rassicurarlo in sogno: “Ti scrivo da una luce che non so / … / Ti scrivo dalla stella più alta, quella che vedemmo brillare sulle nostre labbra di fanciulli innamorati, la stessa, / la più grande e luminosa del primo batticuore, / … // Da questo cielo infiniti sorrisi, dal tempo delle primavere, / dal coro dei venti serafini, dall’incanto dei soli perenni”.
Non si può non pensare, in questo passaggio, alla Beatrice di Dante, trasfigurata dalla dimensione di un altrove che è pura luce. “Ti mando un bacio che è di Dio, / delle anime serene, degli amori eterni. / Sii felice”.
Così si conclude la silloge, con un messaggio che invita alla serenità e alla speranza.
E come non si può fare a meno di ricordare la Beatrice dantesca, così non si può fare a meno di correre con la mente a Sant’Agostino: “I nostri morti non sono morti veramente; essi sono solo invisibili e guardano i nostri occhi pieni di lacrime con i loro occhi pieni di luce”.
Un libro, quello di Carmelo Consoli, originale e profondo, con cui, proponendoci la sua amarissima esperienza, egli ci regala anche una interpretazione magistrale dell’amore e del senso della vita; un’esperienza che non solo ci racconta l’alfa e l’omega di una singola umana avventura e di quelle che a lei si riconducono, ma che per estensione rappresenta il mistero stesso del nascere, del vivere e del morire, dell’ombra e della luce, della presenza e dell’assenza; mistero che la scienza e la filosofia indagano con i freddi strumenti della ragione, mentre la poesia, come “L’ape e il calabrone” stupendamente dimostra, indaga con le umanissime (e ineludibili) ragioni del cuore.