L’UOMO CHE ASCOLTAVA LE 500 – Francesco Paolo Tanzj
“L’uomo che ascoltava le 500″, di F. Paolo Tanzj
(Foyer del Teatro Porta Portese – 11-03-2015)
Una miscellanea di tredici racconti dal soggetto assai vario, con l’appendice di un’invettiva e l’aggiunta di una dichiarazione di poetica: in questo consiste il lavoro che Francesco Paolo Tanzj ci offre in L’uomo che ascoltava le 500, edito da Tracce di Pescara. Sono racconti quasi tutti autobiografici, ma che, anche laddove scritti in terza persona, in qualche modo riguardano l’autore, coinvolto come conoscente dei protagonisti; oppure come accusatore (è il caso dell’invettiva). Il coinvolgimento diretto dell’autore nelle vicende narrate contribuisce a rafforzare il senso realistico della scrittura, per cui ci troviamo di fronte ad un realismo autobiografico di valenze tutt’altro che intimistiche.
Tanzj racconta esperienze di vita vissuta. I suoi orizzonti sono pubblici, ma nel pubblico egli parla di sé, del proprio universo interiore, delle proprie utopie, della propria visionarietà. Stabili, nel fondo, troviamo gli ideali libertari e cosmopoliti, mai rinnegati, della Beat generation, ma indubbiamente molta acqua è passata sotto i ponti e l’autore ha dovuto fare i conti con la realtà, con una sconfitta degli ideali che tuttavia è solo apparente. Perché dico questo? perché la realtà non è mai schematica, non a senso unico, ma è sempre complessa e articolata. E’ onnicomprensiva, in essa c’è spazio per tutto ed ogni elemento gioca un ruolo indispensabile, seppure impalpabile e sottile, come possono essere il sogno e l’utopia. Anche questi fanno parte della realtà.
Un realismo, pertanto, che cozza con quanti pensano di poter circoscrivere la realtà in una formula, come accade ai folli e boriosi detrattori del mistero. Un realismo che si lascia attraversare dal mistero. La realtà è un campo sterminato di contrasti, di contraddizioni, dove tutto è in movimento e dove ciò che oggi sembra scomparso magari riapparirà domani, perché di tutto si alimenta e di tutto ha bisogno la vita. La constatazione del fallimento, per quanto amara e pungente, non fa deporre le armi allo scrittore, come non le fa deporre a qualsiasi vero combattente che, a dispetto dello sconforto, abbia fede in se stesso e nel proprio ruolo.
Fin dal primo racconto, quello del vecchietto che ascolta le 500 alla stregua di uno sciamano, superando in diagnosi, in qualità di meccanico, le più moderne attrezzature elettroniche (assurdo personaggio che “gira su una carrozzina elettrica”, scomparendo e ricomparendo all’improvviso “seduto su un apetto”), fin dal primo racconto, dicevo, si viene travolti dallaverve, dal brio, dall’ironia, ma soprattutto dall’umanità di una scrittura veristica e paradossale allo stesso tempo. Nel secondo racconto, poi, Passata è la tempesta, il mistero non è più umoristico, ma si fa inquietante. Bruno, personaggio sfuggente e incomprensibile, che sembra un extraterrestre per i discorsi che fa, fuori dell’usuale, all’improvviso scompare (forse muore, forse no) in circostanze inspiegabili.
Egli un giorno aveva chiesto all’autore, spiazzandolo: “Sei proprio sicuro che le cose che vedi qui intorno siano reali e non una specie di film che proviene dai neuroni di qualche parte del tuo cervello?”. Che cos’è allora la realtà? Dove va a finire l’assioma hegeliano, secondo cuiciò che è reale è razionale? Forse Bruno vaneggia, ma Hegel non è da meno, perché il buon senso dice che non c’è nulla di più irrazionale della realtà. Basta con la retorica, le cose appaiono e scompaiono misteriosamente. Tutto dal mistero viene e tutto il mistero ingoia. Il Nulla e il Tutto sono l’uno nell’altro. Prendiamo il popolo dei Sanniti, ad esempio. Unico, dice Tanzj, “che avesse seriamente conteso ai Romani (per tre secoli) il dominio sulla penisola”. Scomparso. Certo, così sembra, ma quanto di esso è rimasto nelle successive generazioni, nell’anima e nelle cellule della romanità?
La realtà non è mai nuda e cruda. Sempre i confini di essa si confondono con l’irreale, con il sogno. Non si può partecipare alla vita se in qualche modo non si riesce ad estraniarsi dalla vita. Questo pensiero mi sembra costante nella visione del mondo che Francesco Paolo propina. Immergersi nell’Erlebnis, nel flusso della vita, sarebbe impossibile se si dovesse rinunciare a se stessi, se non si potesse coltivare se stessi ponendo fra parentesi la vita stessa. Sarebbe un lasciarsi vivere e non un vivere realmente. Tutto è paradossale. Per poter essere presenti alla vita, occorre sognare, occorre estraniarsi attraverso il sogno dalla vita stessa.
Ciò affiora magistralmente nel racconto intitolato Sonno. Qui si descrive quella “via di mezzo, scivolosa e ondeggiante, quasi una vita intermedia, sospesa vagamente tra sogno e realtà”, in cui viene a trovarsi una sera Giancarlo, il protagonista, prima di addormentarsi. Ne scaturisce una sorta di autoanalisi, dove egli si accorge delle proprie mancanze e si ripromette di “essere presente, essere me stesso, essere attivo”. Vi prego di notare la compresenza dell’essere se stessi e dell’essere attivi: più si è presenti a se stessi e più si è vivi nel mondo.
Ed ecco Il museo della pietra fantastica, dove l’autore racconta un fatto realmente accaduto. Un pastore, a un certo punto della sua vita, scopre, come lui stesso dice, che “le pietre sono vive”, così si abbandona ad uno straripante estro scultoreo che lo porta a creare un vero e proprio museo di pietra all’aperto, intorno alla propria abitazione. La vita è sorprendente, imprevedibile, e noi non siamo altro che esseri mossi dal vento. Tanto più liberi quanto più dipendenti dal vento che ci sovrasta e ci impone le proprie rotte, le proprie direzioni.
C’è poi Villa Démidoff, un racconto dominato dalla figura di Aurora: una di quelle “persone di genio, scrive l’autore, che non si stancano mai di essere se stesse e rotolano ingenuamente ma con lo spirito in alto in questo mondo pieno di stanche mediocrità”. Anche qui tutto è dominato dal fato: un vecchio rintracciato nel bosco viene salvato chissà come dai protagonisti della vicenda, lì condotti da un cane incontrato per caso. Si direbbe che il nostro autore nutra una sorta di laica fiducia nel mistero. Egli non sa se dare ragione ad Alberto, che in un altro racconto,Cagliari, sostiene: “Io ritengo che il caso sia invece qualcosa di prestabilito dall’inizio del mondo per tutti noi, altrimenti non mi saprei spiegare come tutte le vicissitudini che la vita mi (ci) ha dato sono tutte servite a qualcosa”.
Nella conclusione di questo racconto, tuttavia, l’autore sembra condividere l’idea di un fato provvidenziale e intelligente che governa la vita. “E’ come se tutto appartenesse a un eterno presente”, conclude. E non è una prospettiva religiosa. Tanzj è un laico e tale vuole restare, ma il mistero in cui crede è senza dubbio salvifico e dispensatore d’amore. Ci sono momenti in cui lo sconforto prende in lui il sopravvento e sembra farsi totale. Sono i momenti in cui egli osserva il crollo dell’ideologia, dei valori ideali; momenti in cui si sente tradito: “Cerco amici camminando per le strade del paese, e trovo il nulla, il vuoto, l’angoscia. La rabbia per essere circondato da gente insulsa, che non sa niente e proprio per questo campa egregiamente”.
E poi: “L’aria qui è sempre più irrespirabile, è un mondo marcio che non sa più rispondereassolutamente alla nostra ansia di verità e armonia e giustizia. E la letteratura è ormai affogata nelmarketing e negli affari di bassa lega. Non c’è spazio per le menti pulite”. In questo racconto,Passaggio ad Arnara, e ancor più in quello successivo, Il destino delle idee, ma soprattutto nell’invettiva verso Nanni Moretti (un piccolo borghese spacciato per uomo di sinistra, a suo dire), prende corpo la delusione amarissima per la fine di tutte le utopie.
Ma qui, prima di concludere, vorrei concedermi il lusso di una riflessione personale. Purtroppo non basta porsi sotto una bandiera, non è sufficiente aderire a un partito. Bisogna vedere com’è l’uomo che si pone sotto la bandiera o che aderisce al partito. Il problema dei problemi è lui, l’uomo, è sempre l’uomo. Sono gli individui umani. Le idee sono tutte buone e belle, ma sono astratte, perché in concreto le realizzano, o non le realizzano, soltanto gli esseri umani. I veri ideali, allora, non sono collettivi, ma sono fedi individuali. Lasciamo stare i proclami ideologici: sono un bla bla destinato a venire tradito. La fede personale no. Per quanto attraversata da dubbi, e anzi proprio per questo, essa è intramontabile e solo essa raggiunge risultati concreti, seppure circoscritti al piccolo raggio d’azione quotidiano.
E’ così che qualcosa può realmente cambiare. Sarà poco, ma sarà certo, e Francesco Paolo questo lo sa. Non ho dubbi, perché la sua visione del mondo è antischematica, ribelle verso tutto ciò che rischia di cristallizzare la vita. Per questo egli riesce a sfuggire all’ombra minacciosa e demoniaca del pessimismo totale, fornendoci un affresco di varia umanità dove è l’amore alla fine a dominare. L’amore che vola e che fa volare.
Tanti racconti vanno in questa direzione, come Milka è tornata, legato alla scoperta di un campo di concentramento per zingari, durante il periodo bellico, nei pressi di Agnone. O come La zuppa di Elia, dove si parla di un felice incontro tra cultura popolare e cultura elitaria su basi di forte genialità e creatività singolari, lontane dalla cultura di massa dei tempi attuali. O come La campana sotto la neve, costruito intorno alla figura di Padre Pietro, U matte: un cappuccino simpaticissimo, che dopo essere stato in Africa, decide di andare eremita fra i monti, nell’intento di ricavare da un vecchio rudere una chiesa.
E che dire poi della chicca posta al termine del libro, intitolata Una dichiarazione di scrittura? Qui veramente emerge la vocazione vitalistica dello scrittore. Cito tra virgolette: “Ho sempre provato fastidio – non me ne vogliano i miei tanto amati critici – per le analisi testuali, i riferimenti storico-culturali, la ricerca delle parafrasi o degli ossimori, o figure retoriche di ogni genere o fattura. Tutti contorcimenti asettici e tecnografici che non facevano altro – a mio avviso – che distruggere l’intrinseca bellezza dei versi o delle migliori pagine di scrittura”.
Ed ecco ancora un paio di citazioni, prima di concludere: “Non si è poeti se non si è individui, ma non si produce poesia se non si va oltre se stessi, nel campo oscuro di un inconscio collettivo che ci conduce ai fondamenti dell’esistere”. E infine: “Credo in una scrittura viva, fatta delle ansie e degli entusiasmi di tutti i giorni: non amo i minimalismi e gli sperimentalismi accademici: voglio lasciarmi travolgere dalle cose e interpretarle con la gioia e il dolore, con l’amore, con l’accettazione del bene e del male. E incontrare le persone e i pensieri, accorgendomi di tutto quello che mi sta intorno”. Concludo dicendo che questo è un libro che deve essere letto, perché, nel disfacimento dei nostri giorni, è un’iniezione di fiducia tutt’altro che ingenua nell’amore e nella vita.
Franco Campegiani
1 Commento to “L’UOMO CHE ASCOLTAVA LE 500 – Francesco Paolo Tanzj”
“L’uomo che ascoltava le 500″, di F. Paolo Tanzj
(Foyer del Teatro Porta Portese – 11-03-2015)
Una miscellanea di tredici racconti dal soggetto assai vario, con l’appendice di un’invettiva e l’aggiunta di una dichiarazione di poetica: in questo consiste il lavoro che Francesco Paolo Tanzj ci offre in L’uomo che ascoltava le 500, edito da Tracce di Pescara. Sono racconti quasi tutti autobiografici, ma che, anche laddove scritti in terza persona, in qualche modo riguardano l’autore, coinvolto come conoscente dei protagonisti; oppure come accusatore (è il caso dell’invettiva). Il coinvolgimento diretto dell’autore nelle vicende narrate contribuisce a rafforzare il senso realistico della scrittura, per cui ci troviamo di fronte ad un realismo autobiografico di valenze tutt’altro che intimistiche.
Tanzj racconta esperienze di vita vissuta. I suoi orizzonti sono pubblici, ma nel pubblico egli parla di sé, del proprio universo interiore, delle proprie utopie, della propria visionarietà. Stabili, nel fondo, troviamo gli ideali libertari e cosmopoliti, mai rinnegati, della Beat generation, ma indubbiamente molta acqua è passata sotto i ponti e l’autore ha dovuto fare i conti con la realtà, con una sconfitta degli ideali che tuttavia è solo apparente. Perché dico questo? perché la realtà non è mai schematica, non a senso unico, ma è sempre complessa e articolata. E’ onnicomprensiva, in essa c’è spazio per tutto ed ogni elemento gioca un ruolo indispensabile, seppure impalpabile e sottile, come possono essere il sogno e l’utopia. Anche questi fanno parte della realtà.
Un realismo, pertanto, che cozza con quanti pensano di poter circoscrivere la realtà in una formula, come accade ai folli e boriosi detrattori del mistero. Un realismo che si lascia attraversare dal mistero. La realtà è un campo sterminato di contrasti, di contraddizioni, dove tutto è in movimento e dove ciò che oggi sembra scomparso magari riapparirà domani, perché di tutto si alimenta e di tutto ha bisogno la vita. La constatazione del fallimento, per quanto amara e pungente, non fa deporre le armi allo scrittore, come non le fa deporre a qualsiasi vero combattente che, a dispetto dello sconforto, abbia fede in se stesso e nel proprio ruolo.
Fin dal primo racconto, quello del vecchietto che ascolta le 500 alla stregua di uno sciamano, superando in diagnosi, in qualità di meccanico, le più moderne attrezzature elettroniche (assurdo personaggio che “gira su una carrozzina elettrica”, scomparendo e ricomparendo all’improvviso “seduto su un apetto”), fin dal primo racconto, dicevo, si viene travolti dallaverve, dal brio, dall’ironia, ma soprattutto dall’umanità di una scrittura veristica e paradossale allo stesso tempo. Nel secondo racconto, poi, Passata è la tempesta, il mistero non è più umoristico, ma si fa inquietante. Bruno, personaggio sfuggente e incomprensibile, che sembra un extraterrestre per i discorsi che fa, fuori dell’usuale, all’improvviso scompare (forse muore, forse no) in circostanze inspiegabili.
Egli un giorno aveva chiesto all’autore, spiazzandolo: “Sei proprio sicuro che le cose che vedi qui intorno siano reali e non una specie di film che proviene dai neuroni di qualche parte del tuo cervello?”. Che cos’è allora la realtà? Dove va a finire l’assioma hegeliano, secondo cuiciò che è reale è razionale? Forse Bruno vaneggia, ma Hegel non è da meno, perché il buon senso dice che non c’è nulla di più irrazionale della realtà. Basta con la retorica, le cose appaiono e scompaiono misteriosamente. Tutto dal mistero viene e tutto il mistero ingoia. Il Nulla e il Tutto sono l’uno nell’altro. Prendiamo il popolo dei Sanniti, ad esempio. Unico, dice Tanzj, “che avesse seriamente conteso ai Romani (per tre secoli) il dominio sulla penisola”. Scomparso. Certo, così sembra, ma quanto di esso è rimasto nelle successive generazioni, nell’anima e nelle cellule della romanità?
La realtà non è mai nuda e cruda. Sempre i confini di essa si confondono con l’irreale, con il sogno. Non si può partecipare alla vita se in qualche modo non si riesce ad estraniarsi dalla vita. Questo pensiero mi sembra costante nella visione del mondo che Francesco Paolo propina. Immergersi nell’Erlebnis, nel flusso della vita, sarebbe impossibile se si dovesse rinunciare a se stessi, se non si potesse coltivare se stessi ponendo fra parentesi la vita stessa. Sarebbe un lasciarsi vivere e non un vivere realmente. Tutto è paradossale. Per poter essere presenti alla vita, occorre sognare, occorre estraniarsi attraverso il sogno dalla vita stessa.
Ciò affiora magistralmente nel racconto intitolato Sonno. Qui si descrive quella “via di mezzo, scivolosa e ondeggiante, quasi una vita intermedia, sospesa vagamente tra sogno e realtà”, in cui viene a trovarsi una sera Giancarlo, il protagonista, prima di addormentarsi. Ne scaturisce una sorta di autoanalisi, dove egli si accorge delle proprie mancanze e si ripromette di “essere presente, essere me stesso, essere attivo”. Vi prego di notare la compresenza dell’essere se stessi e dell’essere attivi: più si è presenti a se stessi e più si è vivi nel mondo.
Ed ecco Il museo della pietra fantastica, dove l’autore racconta un fatto realmente accaduto. Un pastore, a un certo punto della sua vita, scopre, come lui stesso dice, che “le pietre sono vive”, così si abbandona ad uno straripante estro scultoreo che lo porta a creare un vero e proprio museo di pietra all’aperto, intorno alla propria abitazione. La vita è sorprendente, imprevedibile, e noi non siamo altro che esseri mossi dal vento. Tanto più liberi quanto più dipendenti dal vento che ci sovrasta e ci impone le proprie rotte, le proprie direzioni.
C’è poi Villa Démidoff, un racconto dominato dalla figura di Aurora: una di quelle “persone di genio, scrive l’autore, che non si stancano mai di essere se stesse e rotolano ingenuamente ma con lo spirito in alto in questo mondo pieno di stanche mediocrità”. Anche qui tutto è dominato dal fato: un vecchio rintracciato nel bosco viene salvato chissà come dai protagonisti della vicenda, lì condotti da un cane incontrato per caso. Si direbbe che il nostro autore nutra una sorta di laica fiducia nel mistero. Egli non sa se dare ragione ad Alberto, che in un altro racconto,Cagliari, sostiene: “Io ritengo che il caso sia invece qualcosa di prestabilito dall’inizio del mondo per tutti noi, altrimenti non mi saprei spiegare come tutte le vicissitudini che la vita mi (ci) ha dato sono tutte servite a qualcosa”.
Nella conclusione di questo racconto, tuttavia, l’autore sembra condividere l’idea di un fato provvidenziale e intelligente che governa la vita. “E’ come se tutto appartenesse a un eterno presente”, conclude. E non è una prospettiva religiosa. Tanzj è un laico e tale vuole restare, ma il mistero in cui crede è senza dubbio salvifico e dispensatore d’amore. Ci sono momenti in cui lo sconforto prende in lui il sopravvento e sembra farsi totale. Sono i momenti in cui egli osserva il crollo dell’ideologia, dei valori ideali; momenti in cui si sente tradito: “Cerco amici camminando per le strade del paese, e trovo il nulla, il vuoto, l’angoscia. La rabbia per essere circondato da gente insulsa, che non sa niente e proprio per questo campa egregiamente”.
E poi: “L’aria qui è sempre più irrespirabile, è un mondo marcio che non sa più rispondereassolutamente alla nostra ansia di verità e armonia e giustizia. E la letteratura è ormai affogata nelmarketing e negli affari di bassa lega. Non c’è spazio per le menti pulite”. In questo racconto,Passaggio ad Arnara, e ancor più in quello successivo, Il destino delle idee, ma soprattutto nell’invettiva verso Nanni Moretti (un piccolo borghese spacciato per uomo di sinistra, a suo dire), prende corpo la delusione amarissima per la fine di tutte le utopie.
Ma qui, prima di concludere, vorrei concedermi il lusso di una riflessione personale. Purtroppo non basta porsi sotto una bandiera, non è sufficiente aderire a un partito. Bisogna vedere com’è l’uomo che si pone sotto la bandiera o che aderisce al partito. Il problema dei problemi è lui, l’uomo, è sempre l’uomo. Sono gli individui umani. Le idee sono tutte buone e belle, ma sono astratte, perché in concreto le realizzano, o non le realizzano, soltanto gli esseri umani. I veri ideali, allora, non sono collettivi, ma sono fedi individuali. Lasciamo stare i proclami ideologici: sono un bla bla destinato a venire tradito. La fede personale no. Per quanto attraversata da dubbi, e anzi proprio per questo, essa è intramontabile e solo essa raggiunge risultati concreti, seppure circoscritti al piccolo raggio d’azione quotidiano.
E’ così che qualcosa può realmente cambiare. Sarà poco, ma sarà certo, e Francesco Paolo questo lo sa. Non ho dubbi, perché la sua visione del mondo è antischematica, ribelle verso tutto ciò che rischia di cristallizzare la vita. Per questo egli riesce a sfuggire all’ombra minacciosa e demoniaca del pessimismo totale, fornendoci un affresco di varia umanità dove è l’amore alla fine a dominare. L’amore che vola e che fa volare.
Tanti racconti vanno in questa direzione, come Milka è tornata, legato alla scoperta di un campo di concentramento per zingari, durante il periodo bellico, nei pressi di Agnone. O come La zuppa di Elia, dove si parla di un felice incontro tra cultura popolare e cultura elitaria su basi di forte genialità e creatività singolari, lontane dalla cultura di massa dei tempi attuali. O come La campana sotto la neve, costruito intorno alla figura di Padre Pietro, U matte: un cappuccino simpaticissimo, che dopo essere stato in Africa, decide di andare eremita fra i monti, nell’intento di ricavare da un vecchio rudere una chiesa.
E che dire poi della chicca posta al termine del libro, intitolata Una dichiarazione di scrittura? Qui veramente emerge la vocazione vitalistica dello scrittore. Cito tra virgolette: “Ho sempre provato fastidio – non me ne vogliano i miei tanto amati critici – per le analisi testuali, i riferimenti storico-culturali, la ricerca delle parafrasi o degli ossimori, o figure retoriche di ogni genere o fattura. Tutti contorcimenti asettici e tecnografici che non facevano altro – a mio avviso – che distruggere l’intrinseca bellezza dei versi o delle migliori pagine di scrittura”.
Ed ecco ancora un paio di citazioni, prima di concludere: “Non si è poeti se non si è individui, ma non si produce poesia se non si va oltre se stessi, nel campo oscuro di un inconscio collettivo che ci conduce ai fondamenti dell’esistere”. E infine: “Credo in una scrittura viva, fatta delle ansie e degli entusiasmi di tutti i giorni: non amo i minimalismi e gli sperimentalismi accademici: voglio lasciarmi travolgere dalle cose e interpretarle con la gioia e il dolore, con l’amore, con l’accettazione del bene e del male. E incontrare le persone e i pensieri, accorgendomi di tutto quello che mi sta intorno”. Concludo dicendo che questo è un libro che deve essere letto, perché, nel disfacimento dei nostri giorni, è un’iniezione di fiducia tutt’altro che ingenua nell’amore e nella vita.
“L’uomo che ascoltava le 500″, di F. Paolo Tanzj
(Foyer del Teatro Porta Portese – 11-03-2015)
Una miscellanea di tredici racconti dal soggetto assai vario, con l’appendice di un’invettiva e l’aggiunta di una dichiarazione di poetica: in questo consiste il lavoro che Francesco Paolo Tanzj ci offre in L’uomo che ascoltava le 500, edito da Tracce di Pescara. Sono racconti quasi tutti autobiografici, ma che, anche laddove scritti in terza persona, in qualche modo riguardano l’autore, coinvolto come conoscente dei protagonisti; oppure come accusatore (è il caso dell’invettiva). Il coinvolgimento diretto dell’autore nelle vicende narrate contribuisce a rafforzare il senso realistico della scrittura, per cui ci troviamo di fronte ad un realismo autobiografico di valenze tutt’altro che intimistiche.
Tanzj racconta esperienze di vita vissuta. I suoi orizzonti sono pubblici, ma nel pubblico egli parla di sé, del proprio universo interiore, delle proprie utopie, della propria visionarietà. Stabili, nel fondo, troviamo gli ideali libertari e cosmopoliti, mai rinnegati, della Beat generation, ma indubbiamente molta acqua è passata sotto i ponti e l’autore ha dovuto fare i conti con la realtà, con una sconfitta degli ideali che tuttavia è solo apparente. Perché dico questo? perché la realtà non è mai schematica, non a senso unico, ma è sempre complessa e articolata. E’ onnicomprensiva, in essa c’è spazio per tutto ed ogni elemento gioca un ruolo indispensabile, seppure impalpabile e sottile, come possono essere il sogno e l’utopia. Anche questi fanno parte della realtà.
Un realismo, pertanto, che cozza con quanti pensano di poter circoscrivere la realtà in una formula, come accade ai folli e boriosi detrattori del mistero. Un realismo che si lascia attraversare dal mistero. La realtà è un campo sterminato di contrasti, di contraddizioni, dove tutto è in movimento e dove ciò che oggi sembra scomparso magari riapparirà domani, perché di tutto si alimenta e di tutto ha bisogno la vita. La constatazione del fallimento, per quanto amara e pungente, non fa deporre le armi allo scrittore, come non le fa deporre a qualsiasi vero combattente che, a dispetto dello sconforto, abbia fede in se stesso e nel proprio ruolo.
Fin dal primo racconto, quello del vecchietto che ascolta le 500 alla stregua di uno sciamano, superando in diagnosi, in qualità di meccanico, le più moderne attrezzature elettroniche (assurdo personaggio che “gira su una carrozzina elettrica”, scomparendo e ricomparendo all’improvviso “seduto su un apetto”), fin dal primo racconto, dicevo, si viene travolti dallaverve, dal brio, dall’ironia, ma soprattutto dall’umanità di una scrittura veristica e paradossale allo stesso tempo. Nel secondo racconto, poi, Passata è la tempesta, il mistero non è più umoristico, ma si fa inquietante. Bruno, personaggio sfuggente e incomprensibile, che sembra un extraterrestre per i discorsi che fa, fuori dell’usuale, all’improvviso scompare (forse muore, forse no) in circostanze inspiegabili.
Egli un giorno aveva chiesto all’autore, spiazzandolo: “Sei proprio sicuro che le cose che vedi qui intorno siano reali e non una specie di film che proviene dai neuroni di qualche parte del tuo cervello?”. Che cos’è allora la realtà? Dove va a finire l’assioma hegeliano, secondo cuiciò che è reale è razionale? Forse Bruno vaneggia, ma Hegel non è da meno, perché il buon senso dice che non c’è nulla di più irrazionale della realtà. Basta con la retorica, le cose appaiono e scompaiono misteriosamente. Tutto dal mistero viene e tutto il mistero ingoia. Il Nulla e il Tutto sono l’uno nell’altro. Prendiamo il popolo dei Sanniti, ad esempio. Unico, dice Tanzj, “che avesse seriamente conteso ai Romani (per tre secoli) il dominio sulla penisola”. Scomparso. Certo, così sembra, ma quanto di esso è rimasto nelle successive generazioni, nell’anima e nelle cellule della romanità?
La realtà non è mai nuda e cruda. Sempre i confini di essa si confondono con l’irreale, con il sogno. Non si può partecipare alla vita se in qualche modo non si riesce ad estraniarsi dalla vita. Questo pensiero mi sembra costante nella visione del mondo che Francesco Paolo propina. Immergersi nell’Erlebnis, nel flusso della vita, sarebbe impossibile se si dovesse rinunciare a se stessi, se non si potesse coltivare se stessi ponendo fra parentesi la vita stessa. Sarebbe un lasciarsi vivere e non un vivere realmente. Tutto è paradossale. Per poter essere presenti alla vita, occorre sognare, occorre estraniarsi attraverso il sogno dalla vita stessa.
Ciò affiora magistralmente nel racconto intitolato Sonno. Qui si descrive quella “via di mezzo, scivolosa e ondeggiante, quasi una vita intermedia, sospesa vagamente tra sogno e realtà”, in cui viene a trovarsi una sera Giancarlo, il protagonista, prima di addormentarsi. Ne scaturisce una sorta di autoanalisi, dove egli si accorge delle proprie mancanze e si ripromette di “essere presente, essere me stesso, essere attivo”. Vi prego di notare la compresenza dell’essere se stessi e dell’essere attivi: più si è presenti a se stessi e più si è vivi nel mondo.
Ed ecco Il museo della pietra fantastica, dove l’autore racconta un fatto realmente accaduto. Un pastore, a un certo punto della sua vita, scopre, come lui stesso dice, che “le pietre sono vive”, così si abbandona ad uno straripante estro scultoreo che lo porta a creare un vero e proprio museo di pietra all’aperto, intorno alla propria abitazione. La vita è sorprendente, imprevedibile, e noi non siamo altro che esseri mossi dal vento. Tanto più liberi quanto più dipendenti dal vento che ci sovrasta e ci impone le proprie rotte, le proprie direzioni.
C’è poi Villa Démidoff, un racconto dominato dalla figura di Aurora: una di quelle “persone di genio, scrive l’autore, che non si stancano mai di essere se stesse e rotolano ingenuamente ma con lo spirito in alto in questo mondo pieno di stanche mediocrità”. Anche qui tutto è dominato dal fato: un vecchio rintracciato nel bosco viene salvato chissà come dai protagonisti della vicenda, lì condotti da un cane incontrato per caso. Si direbbe che il nostro autore nutra una sorta di laica fiducia nel mistero. Egli non sa se dare ragione ad Alberto, che in un altro racconto,Cagliari, sostiene: “Io ritengo che il caso sia invece qualcosa di prestabilito dall’inizio del mondo per tutti noi, altrimenti non mi saprei spiegare come tutte le vicissitudini che la vita mi (ci) ha dato sono tutte servite a qualcosa”.
Nella conclusione di questo racconto, tuttavia, l’autore sembra condividere l’idea di un fato provvidenziale e intelligente che governa la vita. “E’ come se tutto appartenesse a un eterno presente”, conclude. E non è una prospettiva religiosa. Tanzj è un laico e tale vuole restare, ma il mistero in cui crede è senza dubbio salvifico e dispensatore d’amore. Ci sono momenti in cui lo sconforto prende in lui il sopravvento e sembra farsi totale. Sono i momenti in cui egli osserva il crollo dell’ideologia, dei valori ideali; momenti in cui si sente tradito: “Cerco amici camminando per le strade del paese, e trovo il nulla, il vuoto, l’angoscia. La rabbia per essere circondato da gente insulsa, che non sa niente e proprio per questo campa egregiamente”.
E poi: “L’aria qui è sempre più irrespirabile, è un mondo marcio che non sa più rispondereassolutamente alla nostra ansia di verità e armonia e giustizia. E la letteratura è ormai affogata nelmarketing e negli affari di bassa lega. Non c’è spazio per le menti pulite”. In questo racconto,Passaggio ad Arnara, e ancor più in quello successivo, Il destino delle idee, ma soprattutto nell’invettiva verso Nanni Moretti (un piccolo borghese spacciato per uomo di sinistra, a suo dire), prende corpo la delusione amarissima per la fine di tutte le utopie.
Ma qui, prima di concludere, vorrei concedermi il lusso di una riflessione personale. Purtroppo non basta porsi sotto una bandiera, non è sufficiente aderire a un partito. Bisogna vedere com’è l’uomo che si pone sotto la bandiera o che aderisce al partito. Il problema dei problemi è lui, l’uomo, è sempre l’uomo. Sono gli individui umani. Le idee sono tutte buone e belle, ma sono astratte, perché in concreto le realizzano, o non le realizzano, soltanto gli esseri umani. I veri ideali, allora, non sono collettivi, ma sono fedi individuali. Lasciamo stare i proclami ideologici: sono un bla bla destinato a venire tradito. La fede personale no. Per quanto attraversata da dubbi, e anzi proprio per questo, essa è intramontabile e solo essa raggiunge risultati concreti, seppure circoscritti al piccolo raggio d’azione quotidiano.
E’ così che qualcosa può realmente cambiare. Sarà poco, ma sarà certo, e Francesco Paolo questo lo sa. Non ho dubbi, perché la sua visione del mondo è antischematica, ribelle verso tutto ciò che rischia di cristallizzare la vita. Per questo egli riesce a sfuggire all’ombra minacciosa e demoniaca del pessimismo totale, fornendoci un affresco di varia umanità dove è l’amore alla fine a dominare. L’amore che vola e che fa volare.
Tanti racconti vanno in questa direzione, come Milka è tornata, legato alla scoperta di un campo di concentramento per zingari, durante il periodo bellico, nei pressi di Agnone. O come La zuppa di Elia, dove si parla di un felice incontro tra cultura popolare e cultura elitaria su basi di forte genialità e creatività singolari, lontane dalla cultura di massa dei tempi attuali. O come La campana sotto la neve, costruito intorno alla figura di Padre Pietro, U matte: un cappuccino simpaticissimo, che dopo essere stato in Africa, decide di andare eremita fra i monti, nell’intento di ricavare da un vecchio rudere una chiesa.
E che dire poi della chicca posta al termine del libro, intitolata Una dichiarazione di scrittura? Qui veramente emerge la vocazione vitalistica dello scrittore. Cito tra virgolette: “Ho sempre provato fastidio – non me ne vogliano i miei tanto amati critici – per le analisi testuali, i riferimenti storico-culturali, la ricerca delle parafrasi o degli ossimori, o figure retoriche di ogni genere o fattura. Tutti contorcimenti asettici e tecnografici che non facevano altro – a mio avviso – che distruggere l’intrinseca bellezza dei versi o delle migliori pagine di scrittura”.
Ed ecco ancora un paio di citazioni, prima di concludere: “Non si è poeti se non si è individui, ma non si produce poesia se non si va oltre se stessi, nel campo oscuro di un inconscio collettivo che ci conduce ai fondamenti dell’esistere”. E infine: “Credo in una scrittura viva, fatta delle ansie e degli entusiasmi di tutti i giorni: non amo i minimalismi e gli sperimentalismi accademici: voglio lasciarmi travolgere dalle cose e interpretarle con la gioia e il dolore, con l’amore, con l’accettazione del bene e del male. E incontrare le persone e i pensieri, accorgendomi di tutto quello che mi sta intorno”. Concludo dicendo che questo è un libro che deve essere letto, perché, nel disfacimento dei nostri giorni, è un’iniezione di fiducia tutt’altro che ingenua nell’amore e nella vita.
Franco Campegiani