MATERIA GREZZA – Aurora De Luca

MATERIA GRZZA LIBRI 010Aurora De Luca

Genesi Editrice. Torino. 2014. Pg. 68. €. 12,00
La recensione di Nazario Pardini  La recensione di Antonella Rizzo La recensione di Sandro Angelucci La recensione di Stefano Valentini La recensione di Carmelo Consoli La recensione di Antonella Rizzo  La recensione di Franco Campegiani

Anche in questa raccolta, come nelle precedenti, Aurora De Luca ci proietta nell’alba incontaminata di una stagione d’amore. In questo nuovo testo, tuttavia, il sentimento amoroso assume una consapevolezza che nelle prime sillogi non c’era. La poetessa sente che l’amore è un fondamento, una realtà elementare, materia grezza appunto, che lo scalpello della vita scolpirà per farne una mirabile scultura. Sacrificio, dunque, applicazione, disposizione ad accettare le sfide e le minacce dell’esistenza, desiderio di porre alla prova la scintilla iniziale, di fare esperienza di quel fuoco, di quella forza che move il sole e l’altre stelle. L’incanto non è più sufficiente, c’è bisogno di affrontare il disincanto in un corpo a corpo rischioso, ma tonificante. Non dunque poesia di sospiri (per quanto le sdolcinatezze fossero già bandite nella precedente produzione della giovane poetessa), ma poesia sempre più consapevole del fine costruttivo dell’amore. Non mi riferisco ovviamente alla costruzione di una famiglia (sarebbe banale e scontato), quanto piuttosto alla costruzione coscienziale, all’interiore viaggio di conoscenza. Ed è questo il significato più profondo dell’amore: non un feticcio di cui si è succubi, ma una liberazione, un superamento di se stessi, una proiezione verso l’altro, verso ciò che è diverso e che non si conosce, ma che attrae regalando ali che volano nell’infinito. Amore come attrazione dei contrari (Yin e yang): “Abiti il lato opposto della mia strada, / dov’è la mia sponda ritratta e battuta”. “Il contrario della tua luce / è la mia notte, / il tuo dolce è il mio amaro, / e se ti bevessi berrei la tua sete / che ha in me il suo contrario”. Sta qui, in questa unità degli opposti, la materia prima (grezza per l’appunto) che costituisce l’avvio di un percorso evolutivo che non giungerà mai al termine, ma che produrrà meraviglie e miracoli a non finire. Una forza che chiede di porsi alla prova in avventure e peripezie d’ogni tipo. Un prologo che pretende sviluppi senza mai avere un epilogo, una fine. Un’evoluzione interiore che ciascuno degli amanti è chiamato a vivere per se stesso. Geniale, nella nota introduttiva, l’identificazione dell’Io con il Tu: “Tu mi vedesti e rimasi a guardarmi”; “Tu lo vidi, tu mi vedesti prima di me”; “Ricordi quando mi scelsi? Scelsi me fra mille”. Ciò che va verso di te viene verso di me, e viceversa. Gli amanti sono specchio l’uno per l’altro e ciascuno, riflettendo nell’altro la propria immagine, evolve nella conoscenza di se stesso. L’amore è offerta disinteressata di sé come campo di esperienze per colui o colei che si ama. Sta in questo dono l’amore, in questo porsi al servizio dell’altro senza nulla pretendere, in questo offrirsi per l’evoluzione altrui. Amore come viaggio, come conquista dove nulla è scontato e tutto è sudato e pianto. Un dinamismo sconvolgente. Da qui la metafora del vento, che porta con sé i profumi e i sussurri dell’altrove, luogo e tempo delle perdute origini: “Portami nel luogo / della fine, / dov’è l’accapo / non visto / del vento”. Tutto è ciclico. Tutto è in Divenire, ma il Divenire è nell’Essere. Nella materia grezza è già imprigionata la figura che l’artista libererà nel tempo, un’elaborazione che non verrà mai conclusa definitivamente, per cui egli si troverà sempre all’inizio dell’opera, ai primissimi colpi di scalpello. Si è sempre al primo vagito e non si finisce mai di fare esperienza. Così in amore si è sempre nello stadio iniziale dell’innocenza. Dove tutto si sfiora (“e mi sfiori poi, / poi mi guardi e di nuovo mi sfiori”) e non c’è pienezza che non sia assenza nello stesso tempo. Per quanto vissuto, l’amore non verrà mai consumato totalmente. Sarà sempre una primizia, un dono originario, un fuoco che non si spegne, ma si esalta lungo i percorsi accidentati dell’esistenza: “così noi vivi, arsi e bruciati, / ce ne andiamo ignari / camminando nell’inverno, / pieni di luce e di calore e di fiumi odorosi”. L’amore vive nel tempo mitico delle origini e delle dolci promesse. Nel tempo, dice Aurora, dei “semi protetti”. I quali daranno frutti rinnovando l’inestinguibile prodigio della vita, giacché il seme ed il frutto stanno l’uno nell’altro e non sono separabili. La scissione è una dolorosa necessità del Tempo, ma nell’Essere ogni cosa è nell’altra. Ogni negazione presume un’affermazione, e viceversa: “Ci sono sguardi di cielo / nei gesti di terra e di fango”. Ed “è sempre mattina”. Un amore così “non teme inverni tempestosi / e neppure torride estati”. E’ quel che è, e tale resta a dispetto di ogni possibile offesa. Anche se le ferite ci sono e lasciano il segno: “Ma che dolore vivere di carta / e non saperti dire niente”; “Che strazio / mio cielo, mio pane / spezzato, / mio tutto intero, / sapere che nulla / avverrà”; “m’accorgo che posso solo restare / a seguirti / a cercare di vederti”. Poi la poetessa si rivolge alla margherita, al “taciturno stelo”, rendendosi tragicamente conto che “alle sue domande / nessuno risponde”. Problematicità. E’ questo il tratto – filosofico direi – del nuovo corso poetico di Aurora De Luca, dove affiora la consapevolezza della negazione e del suo ruolo importante. L’invocazione è a restare ancorati nell’Essere, a dispetto del Tempo e delle sue illusorie offese (“Il tempo è la nostra invenzione / la nostra idea di nuvola che si muove”). In realtà nulla si disperde e ciò che nasce dall’Essere torna nell’Essere: “Tutti stretti i nostri pensieri, / nuvole che si adombrano e disperdono / in un tempo che è al di fuori di noi / che lo componiamo”. Ma ogni tramonto contiene la promessa dell’alba, e questo è un atto di fede. La poetessa è e resta consapevole di vivere “il tempo bello / dell’armonia audace / tra la sorgente e la sua foce, / tra la mia gioia dolcissima / e la salatissima paura”.

Franco Campegiani